Il 25 Aprile è passato, non il bisogno di antifascismo

Il 25 aprile è passato, per la seconda volta nel tempo del governo Meloni. Mentre non è passato il pericolo neonazifascista e quindi il bisogno di antifascismo (non celebrativo bensì militante).

Per fare un bilancio, occorre partire dalle due affermazioni più significative del governo, una per bocca della Meloni e l’altra per bocca di suo cognato, per quanto ispirata sempre dalla premier. Perché solo gli sciocchi possono pensare che Lollobrigida parli senza esprimere il pensiero del suo leader; e soltanto gli stolti possono pensare che il problema della Meloni siano i suoi collaboratori (del resto si usava dire così anche di Mussolini).

La presidente del Consiglio ha affermato testualmente: “La caduta del fascismo ha posto le basi per la democrazia”. Della serie, se siamo liberi e democratici, il merito è del fascismo che, bontà sua, è caduto. Chissà perché questa affermazione, più che indignazione, suscita curiosità per ciò che si potrà inventare l’anno prossimo.

Mentre Lollobrigida, ha spiegato che non ci si può dichiarare antifascisti perché negli anni, definirsi tali, ha significato comunque violenza e morte. Questo, a mio avviso, è il cuore del conflitto con la destra al governo del nostro paese. Altro che dichiararsi antifascisti: il loro obbiettivo è criminalizzare l’antifascismo. Produrre una operazione di revisionismo storico.

Se questo è vero, è inutile continuare a chiedere alla Meloni di dichiararsi antifascista; forse è più utile interrogarsi sulla necessità o meno di un antifascismo militante, perché è proprio nel centro-sinistra che, negli anni, si è perso questo valore, insieme ad altri. Ed è nel centrosinistra che alberga il pensiero che l’antifascismo sia superato, essendo che il fascismo è morto 70 anni orsono.

Vorrei ricordare, a questo proposito, la polemica aperta dal PD con l’ANPI, non appena l’ANPI si è permessa di criticare l’invio delle armi all’Ucraina, l’espansionismo della NATO e si è schierato contro la guerra e per la pace, senza se e senza ma.

Per combattere il revisionismo storico delle destre occorre dunque un antifascismo militante. Il primo terreno di scontro è il tentativo, in gran parte riuscito (Risoluzione del parlamento europeo del 2021), di equiparare nazifascismo a comunismo. Non può esserci equiparazione tra un fenomeno che nasce come rivoluzione dal basso della società e che, una volta degenerato in sistema corrotto autoritario e despota, ha consentito di uscirne senza un colpo di cannone – come è accaduto per l’URSS, attraverso un percorso di glasnost e perestrojka – e il nazifascismo, che ha imposto il suo potere assoluto con la violenza, con le persecuzioni razziali e politiche, con le risorse economiche del grande capitale e con le guerre coloniali. Considerando che, per sconfiggerlo, ci è voluta una guerra mondiale costata oltre 60 milioni di morti.

Il secondo terreno di scontro sul revisionismo storico riguarda gli anni del post-fascismo.

Lollobrigida forse non sa (ma la Meloni sì) che dal 1969 al 1975 in Italia sono stati compiuti 4.584 attentati; di questi, l’83% è di asseverata matrice neofascista. Così come il 25 aprile del 1969 furono piazzate due bombe a Milano, una alla stazione Centrale (che fortunatamente non esplose) e l’altra alla fiera di Milano, nel padiglione della Fiat, che esplose e causò 20 feriti. Ad agosto di quell’anno furono messe otto bombe su altrettanti treni. Il 12 dicembre ci fu poi la strage di Piazza Fontana ed in contemporanea altri quattro attentati minori. Il 7-8 dicembre del 1970 ci fu infine un tentativo di colpo di Stato (il ‘golpe Borghese’).

Una sequenza di stragi con un’unica regia, di ‘Ordine Nuovo’, organizzazione neofascista. Poi c’è la sequenza dei delitti firmati dalle BR, sequestri ed uccisioni. Per alcuni, quando si parla degli ‘anni di piombo’, sembra che sia un fenomeno esclusivo delle BR, ma non è così. Perché vanno collocati all’interno di una strategia della tensione orchestrata dal potere nazionale ed atlantico per mantenere lo status quo ed impedire un’ipotesi di governo democratico delle sinistre.

Comunque, non soltanto non si è trattato di un fenomeno unilaterale di terrorismo rosso; ma non si può neanche operare una equiparazione fra terrorismo rosso e nero.

Perché da una parte ci sono efferati omicidi mirati contro obiettivi del potere, supposti nemici di classe (imprenditori, dirigenti, giudici, forze dell’ordine, giornalisti, infine anche politici e sindacalisti). Ossia un fenomeno comunque gravissimo e combattuto con determinazione da tutte le forze democratiche con tutte le energie possibili e che è stato sconfitto (con tutti i protagonisti principali assicurati alla giustizia, salvo un filone d’indagine d’infiltrazioni di servizi segreti italiani e atlantici). Mentre dall’altra parte ci sono le stragi che colpiscono la popolazione civile, con centinaia di morti, feriti e mutilati incolpevoli ed inconsapevoli; con l’obiettivo di creare un clima di terrore e di fuga dalla cittadinanza attiva. Stragi che, per la maggior parte, sono rimaste impunite ed in generale, anche se in tutte è stata sentenziata la matrice neofascista, i mandanti non sono stati quasi mai assicurati alla giustizia.

E, in ogni caso, le stragi sono continuate: Piazza della Loggia, Italicus, stazione di Bologna, Firenze, Roma… Fino ad arrivare ai giorni nostri, al 9 ottobre del 2021, con l’assalto alla sede nazionale della CGIL: un’azione squadrista e neofascista guidata dai leader di Forza Nuova. Non è pensabile organizzare un assalto alla sede del principale sindacato, in pieno centro, in pieno giorno, a viso scoperto, se non si usufruisce di un contesto favorevole. Un contesto, se non di plauso, di tolleranza. Infatti, davanti alla CGIL non c’era un reparto di polizia in assetto antisommossa a protezione della sede, come invece era stato previsto nei giorni precedenti a protezione dei luoghi sensibili, nonostante il preavviso di quell’atto squadrista contro la CGIL. E non si è vista la Meloni, in quella sede assaltata, ad esprimere la sua solidarietà, nelle ore successive.

Quindi non c’è soltanto da fronteggiare il revisionismo storico; vanno avversate anche la manipolazione della cronaca, con la falsificazione della realtà, ed il tentativo di riesumare la strategia degli ‘opposti estremismi’. Con l’uso frequente e fortemente simbolico dei manganelli, dell’occupazione del sistema informativo pubblico, della gogna mediatica contro gli avversari. Viene creato sistematicamente un ‘allarme sicurezza’ su tutte le manifestazioni di dissenso; addirittura è stato montato ad arte, anche attraverso la censura allo scrittore Scurati, un allarme sul 25 Aprile tentando di trasformare la festa della Liberazione in un cupo scenario di intolleranze e violenze.

Al contrario, dei fatti accaduti in occasione della commemorazione di Acca Larentia ci si accorge solo il giorno dopo… Ma non sono i saluti romani o i busti di Mussolini a segnalare il pericolo di un fascismo moderno prossimo venturo: sono ben altri gli ingredienti della fase della nostra società. Il primo dato allarmante riguarda le diseguaglianze sociali: Oxfam ci dice che il 50% della popolazione più ricca possiede il 97% delle risorse e l’altro 50% più povero possiede solo il 3%. Siamo molto lontani dalla società dei due terzi che negli anni 70-80 ha fatto sperare in un mondo di definitivo benessere; al contrario, ci siamo attestati su un mondo-polveriera.

I fascismi del primo Novecento si affermavano dopo una rivoluzione industriale che aveva creato nuove ricchezze ed un nuovo rapporto fra capitale e lavoro, con un sistema capitalistico che, avvertendo il pericolo di possibili rivoluzioni proletarie, utilizzò i regimi autoritari fascisti e le guerre per difendersi e consolidarsi.

Oggi non ci troviamo forse in una condizione analoga? In cui il capitalismo, ormai modello unico, non ha paura di possibili rivoluzioni proletarie, ma ha una paura altrettanto, se non di più, forte per ragioni entropiche, della questione ecologica con le sue contraddizioni insanabili e distruttive da cui difendersi ricorrendo a guerre, economie di guerra e fascismi? Il tutto alle prese con una nuova rivoluzione tecnologica di portata storica come quella industriale del primo Novecento: la rivoluzione digitale.

Con la concentrazione di risorse, conoscenza, controllo, indirizzo, omologazione di scienze e coscienze, tutti poteri concentrati in pochissime persone, non contendibili politicamente e non contrattabili sindacalmente.

I rapporti fra capitale e lavoro hanno raggiunto livelli mai visti di squilibrio, perché la tecnologia digitale e la “potenza di calcolo” rendono fragili, deboli e spaesati i lavoratori, che hanno perso il controllo sull’organizzazione del lavoro. La loro precarietà ed insicurezza inibisce ogni funzione e ruolo di contrasto e si assiste ad un indebolimento delle stesse organizzazioni sindacali, al punto che una organizzazione sindacale importante e storica come la CISL cerca di convertirsi in un’agenzia di servizio e sussidiarietà sociale per il mondo del lavoro, rinunciando strutturalmente al conflitto; mentre la CGIL e la UIL cercano con difficoltà un’altra strada.

La sfida è questa: riconoscere il fascismo che c’è per essere all’altezza dei partigiani di allora, con un antifascismo militante presente e futuro.

Pietro Soldini

Pubblicato il 5 Maggio 2024