Sangiuliano e gli altri: la cultura all’incontrario

Ci sono leaders politici che fanno la storia e ci sono leaders che la raccontano. Di solito, quelli che la fanno non la raccontano, mentre quelli che la raccontano non la fanno. Giorgia Meloni appartiene alla seconda categoria.

Quelli che la raccontano sono sempre a caccia di colpi ad effetto: l’ultimo record della Premier, che ha autocelebrato all’assemblea della Confindustria, riguarda la crescita “senza precedenti” dell’occupazione. Ha infatti dichiarato, con una certa enfasi, che non ci sono mai stati tanti lavoratori occupati (più di 24 milioni) dal tempo in cui Garibaldi ha fatto l’Italia. Diciamo che l’ha sparata proprio grossa.

Infatti, se l’industria cala sul trimestre dell’1,9% (e del 3,3% su base annua), calano inevitabilmente tutti i settori: auto, manifattura, legno, edilizia, tessile. Riguardo a quest’ultimo, l’alta moda è crollata addirittura del 10%; cala persino il turismo, rispetto all’exploit del dopo-Covid. Calano i consumi del 5% ed i poveri assoluti aumentano fino a sfiorare la cifra dei 6 milioni. Di che boom occupazionale stiamo dunque parlando? La Premier fa propaganda, ma i giornalisti, i commentatori, nonché gli ascoltatori e gli spettatori normodotati, dovrebbero avanzare qualche dubbio. O, al contrario, non sorge spontanea alcuna domanda?

Di quale “occupazione” stiamo parlando se non aumenta il monte salari? O se non aumenta il monte contributi all’Inps? Oppure se non aumenta il monte ore lavorate? O se i consumi si riducono? O se le imprese riducono il fatturato? O se i poveri sono il doppio dei disoccupati?

Dunque, il “lavoro” di cui parla Meloni è povero; si è poveri anche lavorando precariamente e saltuariamente, lavorando di più e guadagnano di meno. Andando avanti così, lavorando quasi gratis, si dovrebbe raggiungere la piena occupazione, e magari si potrebbe ripristinare il commercio degli schiavi, anziché farli annegare nel Mediterraneo.

Ma i risultati sull’occupazione sono niente rispetto alla missione più importante: quella di sostituire l’egemonia culturale della sinistra. Ma su questo terreno gli auspici della Premier sono più complicati, anche soltanto se si tratta di raccontare qualcosa che non è stato fatto: dalla “sostituzione etnica” al “Piano Mattei”, sempre all’insegna del consolidato motto “Dio, Patria e Famiglia”,  oltre gli slogan occorrerebbero anche le buone pratiche e, magari, qualche testimonial convincente, anche solo un’influencer qualificata. Invece, purtroppo, in famiglia (considerandola anche allargata), mancano proprio i prerequisiti… a giudicare dalle performance di parenti, ex fidanzati e camerati mediocri.

In particolare, la performance del Ministro della Cultura Sangiuliano, anche al netto della vicenda Boccia, è una prima ed inequivocabile dimostrazione di inconcludenza, fallimento e di aperta sfida al senso del ridicolo: aveva il mandato di sostituire l’egemonia culturale della sinistra, mentre è stato sostituito lui. E chi lo ha sostituito, sempre con le referenze della famiglia allargata, sembra che voglia cambiare strategia: invece di arruolare Dante Alighieri, vorrebbe addirittura accollarsi Antonio Gramsci.

Per fare la storia e conquistare una nuova egemonia culturale, occorrerebbe innanzitutto conoscere molto bene la storia e la profondità di percorsi culturali più o meno egemoni; e soprattutto coltivare un pensiero culturale altrettanto profondo.

Giorgia Meloni è nata nel 1977, ma cosa ha studiato del ‘68-‘69, a parte le testimonianze dei picchiatori neofascisti? Avrà approfondito il fatto che il movimento giovanile del ‘68, che ha fortemente inciso sull’evoluzione culturale e del costume del nostro paese, non era certo al potere, bensì era contro il governo e contro il sistema; un movimento dal basso di massa che ha condizionato fortemente i partiti e la politica dal di fuori e dal di dentro.

Il Pci non comprendeva tutto di quel movimento e si è messo in ascolto, ha assunto delle istanze di cambiamento e le ha proiettate negli anni Settanta. A Meloni servirebbe sapere che lo Statuto dei Diritti del lavoro è del 1970, la legge sul divorzio è del 1974, lo stesso anno della legge sui decreti delegati nelle scuole e dell’elezione degli organismi collegiali. E’ del 1976 è la legge sui principi per la democratizzazione delle forze armate, sono del 1978 la legge sull’aborto e la riforma sanitaria, è del 1981 la legge sulla smilitarizzazione e sindacalizzazione della polizia di Stato. Tutto ciò è venuto sulla spinta della sinistra, soprattutto del PCI, senza che fosse al Governo.

Come reagì il sistema di potere di allora? Produsse terrorismo stragista e strategia della tensione, utilizzando le formazioni neofasciste che si riferivano ad un certo ramo genealogico. Cosa potrebbe somigliare, oggi, a quel movimento? Forse i ragazzi che si battono per la transizione ecologica, per il risanamento dell’ambiente, per salvare il pianeta dalla distruzione ad opera del sistema di sfruttamento capitalistico. Quei ragazzi che il governo Meloni vorrebbe incarcerare.

Quindi la Premier non fa certo la Storia, semmai vorrebbe frenarla. Potrebbe esserle utile riflettere sul fatto che quando il Pci ha vinto le elezioni al Comune di Roma non ha occupato la l’istituzione con i militanti di partito dal lungo e fidato pedigree, ma ha chiamato a fare il Sindaco Giulio Carlo Argan, il più grande storico dell’Arte italiano, conosciuto in tutto il mondo; ha chiamato ad occuparsi di cultura un certo Renato Nicolini, che inventò un nuovo modo di fare cultura e spettacolo fra la gente, nelle strade e nelle piazze della città, per sfidare e vincere contro gli  anni di piombo. Ed ha candidato alla Regione Lazio, ad occuparsi di cultura, un certo Gianmaria Volonté. Non ha quindi occupato le istituzioni culturali con il mandato ad epurare; al contrario, ha chiamato uomini di cultura, indiscutibilmente rappresentativi, ad assumersi responsabilità istituzionali.

Il Pci, con il suo Segretario Enrico Berlinguer, all’Eliseo, proprio nel 1977, quando Giorgia Meloni nasceva, promuoveva un confronto storico con il mondo della cultura per cercare insieme a loro una risposta alla crisi di valori, della politica e del sistema.

Si nota una certa differenza?

L’ egemonia culturale della sinistra, ammesso che ci sia stata, ha questo spessore, ed oggi possiamo dire che, se ha subito un colpo duro, è stato ad opera di Berlusconi, che ha inventato un circuito di media commerciali che ha cambiato la comunicazione, ha influenzato in negativo, impoverendola, la politica, anche a sinistra. Così come ha impoverito la cultura ed il costume di questo paese.

Oggi che le azioni di questo governo, più che affermare una nuova egemonia culturale, tentano di conservare e consolidare il modello berlusconiano. Non stiamo dunque parlando di ‘egemonia culturale’ (che non si può imporre a partire da un governo), ma piuttosto di una cultura di regime.

Sfornare mini-decreti quotidiani con il solo obiettivo di imbavagliare e criminalizzare il dissenso, dove può condurci? Forse soltanto ad uno Stato di polizia e ad una cultura di regime. Un déjà-vu con un misero presente, senza futuro e senza storia.

Pietro Soldini

Pubblicato il 25 Settembre 2024