Un G7 all’italiana, sopra le righe e fuori dal tempo

A proposito del vertice mondiale tenuto in Puglia e della necessità di un punto di vista di classe

Il vertice del G7 a Fasano in queste settimane ha occupato le cronache politiche e quelle di costume, in una stagione in cui spesso i confini tra i due ambiti si confondono. Il resort che ha ospitato le riunioni (location che ha persino denominato il vertice), i piatti di Buttura, le ville e le calette che hanno ospitato le delegazioni, la pizzica e i vestiti della premier hanno riempito articoli e servizi televisivi. Uno sfoggio di lusso, glamour e ostentazione che stride con il profilo che si vorrebbe popolare di Giorgia e soprattutto contraddice la stagione che stiamo vivendo: la guerra in Ucraina, il massacro di Gaza, il rischio di un conflitto mondiale nell’orizzonte degli eventi, un perdurante stato di crisi e ristrutturazioni affrontato con la riattivazione di politiche di austerità dopo la parentesi pandemica. Davvero, lo stile di questa classe dirigente stride coi tempi, anche se in fondo li accompagna e li spiega: una nuova generazione di sonnambuli, che fra selfie, balli e cene di gala ci sta portando verso l’abisso. Un contrasto che colpisce a fronte del vuoto del vertice.

Il G7 è infatti solo l’ombra sbiadita di quello che fu. Il primo vertice si tenne nel 1975 nel castello di Rambouillet, riunendo le principali potenze capitalistiche dell’epoca: Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia, a cui si unì l’anno successivo il Canada. La riunione fu convocata per cercare di trovare un coordinamento tra le politiche economiche e monetarie di questi paesi, dopo l’abolizione della convertibilità aurea del dollaro (15 agosto 1971), il primo shock petrolifero, l’abbandono definitivo dei cambi fissi stabiliti a Bretton Woods (1973), la crisi dell’economia globale e il rischio di politiche competitive che avrebbero potuto disarticolare l’alleanza atlantica, allora in piena guerra fredda. Questi vertici divennero allora una camera di compensazione tra le diverse potenze a tardo capitalismo e uno degli organismi di gestione del cosiddetto Washington Consensus, la fase di internazionalizzazione della finanza e dei commerci che segnò la cosiddetta stagione neoliberista. Il G7, a quel tempo, riuniva le principali sette potenze, che sommavano circa il 60% del PIL mondiale: le sue decisioni, o i suoi disaccordi, avevano quindi sensibili conseguenze. Dopo il crollo dell’URSS, tra 1998 e 2014, non a caso le sue riunioni furono allargate alla Russia (G8).

Oggi la realtà è altra. L’integrazione mondiale e l’impressionante sviluppo capitalista cinese hanno favorito l’industrializzazione di numerosi altri paesi: dietro gli USA, oramai le principali economie del mondo si allargano oltre i 7, con Cina, india, Brasile, Russia e Messico.

Il G7 non è una delle strutture di governo del mondo, ma oggi prova solo a tenere insieme i paesi a tardo capitalismo, a fronte di altri equilibri e altre camere di compensazione che stanno emergendo, come i BRICS, che oggi raccolgono Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica, Egitto, Etiopia, Iran ed Emirati Arabi. Il suo peso è ancora rilevante (intorno al 40% del PIL mondiale), ma è organizza solo una parte, in cui spiccano interessi diversi se non contrastanti. Molti commentatori hanno segnalato come questo vertice fosse di anatre zoppe, perché a parte Meloni, tutti i premier presenti erano alla vigilia di una loro uscita o avevamo appena affrontato sconfitte elettorali nei loro paesi: qualunque decisione sarà soggetta alla verifica dei nuovi assetti politici che emergeranno nei prossimi mesi (le elezioni in Francia, Gran Bretagna e Canada, la tenuta del governo Scholz, le presidenziali USA e le complicate dinamiche giapponesi). Vero. Il punto di fondo, però, è che questo vertice ha fatto soprattutto propaganda: si è declamato il cessate il fuoco a Gaza (senza nessuna ricaduta), si è citato il fantasmatico Piano Mattei per l’Africa (omaggio all’organizzatore), si è fanfaronato di impegno contro la tratta di esseri umani e discusso di diritto all’aborto (citandolo senza citarlo), si è invitato il Papa per una foto opportunity e si è parlato di intelligenza artificiale. L’unica reale decisione, però, è stata quella di un nuovo prestito di 50 miliardi di dollari all’Ucraina, utilizzando gli interessi passivi dei beni russi congelati: un ulteriore escalation di questa guerra che conferma come oggi il G7 sia soprattutto uno strumento di coordinamento della scomposta iniziativa atlantica nello scontro interimperialista in corso.

La nota amara di questo vertice, al di là della nausea per l’ostentazione, è la debolezza delle sue contestazioni. Vent’anni fa il Washington consensus, lo sfruttamento e i disastri ambientali di questo modo di produzione catalizzarono un ampio movimento anticapitalista: pensiamo al controvertice WTO di Seattle del 1999 e a quello G8 di Genova nel 2001. Questi vertici sono, cioè, stati a lungo occasione di mobilitazione e incontro dei movimenti sociali, con la costruzione di dinamiche di fronte unico. Fu così anche al precedente G7 a Roma, nel 2021. Oggi a Fasano tutto questo c’è stato, ma frammentato e in tono minore. Segno dei tempi, della fase di divisione e sbandamento che stanno attraversando i movimenti anticapitalisti. In tutto questo, sconcerta il vuoto della CGIL, l’assenza di un punto di vista del lavoro. Anche qui, allora, emerge la necessità e l’importanza del nostro percorso, a partire dalla costruzione di un punto di vista di classe e alternativo in grado di esprimersi nell’azione sindacale e nei movimenti sociali.

Luca Scacchi

Pubblicato il 26 Giugno 2024