Peppino Impastato e la sua battaglia per i diritti e la libertà
Fu una battaglia coraggiosissima, unica e solitaria quella di Peppino e dei suoi amici e compagni, militanti di gruppi della sinistra extraparlamentare, poi confluiti in Democrazia Proletaria. Unica, nel caso di Peppino, perché dovette scontrarsi col padre mafioso (non dei più brutali…); isolata, in una fase storica in cui l’attenzione prevalente era rivolta al terrorismo. Isolata, ancora, perché si erano concluse le lotte per la terra di fine ‘800 e della prima metà del ‘900, che avevano visto cadere sotto il piombo agrario e mafioso decine di braccianti, politici e sindacalisti socialisti e comunisti, che, allo stesso tempo, avevano raggiunto importanti obiettivi. Ma parliamo di lotte che non si erano adeguatamente rinnovate e adattate ai mutamenti socio-economici e politici.
Fu una battaglia isolata, infine perché il percorso verso il compromesso storico troppo spesso veniva inteso o frainteso a sinistra come un cedimento verso assetti di potere politico mafiosi. O come una rinuncia alle lotte sociali, con i lavoratori sfruttati dalla mafia.
In un paese come Cinisi, dove regnava uno dei capi della mafia siciliana, Tano Badalamenti (“Tano Seduto”), la battaglia era poi ancora più difficile. Peppino si scontrava quotidianamente con quella realtà anche attraverso uno strumento assolutamente innovativo come Radio Aut, aggiunto ai canali di comunicazione allora utilizzati: contatti diretti, assemblee, periodici locali (anche questa fu un’innovazione) o volantini.
Attraverso la radio venivano trasmesse musica e canzoni, venivano commentate le cronache politiche generali, senza però distogliere mai l’attenzione da ciò che accadeva in quel territorio (non era affatto scontato in quegli anni, soprattutto negli ambienti della sinistra radicale che pensava innanzitutto di superare il sistema capitalistico). E così venivano denunciati i traffici di droga, la speculazione e la distruzione dell’ambiente e delle bellezze naturali, l’impropria costruzione della terza pista dell’aeroporto di Punta Raisi (precedentemente prevista altrove), lo sfruttamento, il lavoro nero e il clientelismo.
La Chiesa cattolica e le comunità religiose, con poche eccezioni, non avevano ancora preso le distanze e sconfessato Cosa nostra, mentre le forze dell’ordine e gli apparati investigativi tendevano, con rare eccezioni, a perseguire gli antimafiosi più che i mafiosi. E ciò fu ancora più evidente proprio con la morte di Peppino, quando, pur a fronte di indizi evidenti che facevano pensare all’omicidio, le indagini si orientarono da subito verso le ipotesi del suicidio e/o del fallito attentato terroristico.
Fu soprattutto grazie al coraggio della sua famiglia, dei suoi compagni, del Centro Siciliano di Documentazione sul fenomeno mafioso, oggi a lui intestato, della controinchiesta da loro promossa – con la preziosa collaborazione del medico legale Ideale Del Carpio – dell’avvento di un’altra generazione di magistrati e forze dell’ordine, se si è raggiunta la verità giudiziaria, oltreché quella storica.
Oggi Peppino è diventato un simbolo per i giovani, per quella parte di società che vuole liberarsi dal cancro mafioso, per gli eredi di quella sinistra che in quella fase lo guardava come un cane in chiesa… Tutto ciò non può che renderci felici.
Ma noi abbiamo sempre pensato che è ancora lunga la strada per essere come lui e come tanti altri eroi Antimafia (sì, eroi). Perché è difficile avere quel coraggio (ma si potrebbe sopperire condividendo le azioni più rischiose). Ma, soprattutto, perché oggi siamo ben lontani dalla sburocratizzazione adottata da gruppo formidabile che affiancava Peppino: per denunciare le malefatte (eufemismo…) di ‘Tano Seduto’ e dell’Amministrazione comunale di allora, non attendevano certo mille riunioni autorizzative dei vertici provinciali o regionali del gruppo politico, sindacale, del Forum o di altre associazioni di appartenenza.
Salvino Carramusa
Pubblicato il 15 Maggio 2023