I salari pubblici? Sempre più poveri
Quando leggiamo o scriviamo che dal 1990 il valore dei salari in Italia è diminuito del 2.9%, mentre cresceva nel resto del mondo, tendiamo a non soffermarci troppo sulla scarsa incisività delle rivendicazioni sindacali, ma accettiamo questo quadro con sostanziale rassegnazione, come se avessimo a che fare con un processo inevitabile, superiore alle nostre forze e capacità di contrasto.
Per i contratti pubblici questa perdita è stata certamente maggiore del 3%. Per valutarla basterebbe confrontare le serie storiche dei dati relativi all’inflazione con gli incrementi contrattuali (prima biennali, poi triennali) nei periodi corrispondenti.
Crediamo sia utile cercare di ricostruire la storia e i momenti salienti della caduta del potere d’acquisto dei contratti pubblici, giunti oggi al punto di minore attrattività e remuneratività della loro storia.
Le considerazioni che seguono sono riferite ai contratti delle Funzioni Locali, ma gli argomenti proposti sono validi anche per gli altri comparti pubblici.
Gli anni 90 furono caratterizzati da diversi processi paralleli: da un lato la moderazione salariale, sancita negli accordi di concertazione sindacale del ’93, dall’altro una progressiva ma effettiva riduzione (di circa 5 punti nel decennio) dell’inflazione, resa possibile da quell’accordo ma anche dalla maggiore stabilità imposta dagli accordi monetari. Ma fu anche il decennio delle riforme della pubblica amministrazione, del contratto separato della dirigenza, che drenò risorse fino ad allora inimmaginabili per i dirigenti, mentre il resto dei lavoratori pubblici segnava il passo.
I rinnovi contrattuali, allora biennali, prevedevano incrementi commisurati all’inflazione “programmata” (nel Dpef, come si chiamava allora), e solo nel biennio successivo era previsto il recupero degli scostamenti tra inflazione programmata e inflazione reale. Il rallentamento aveva la finalità di spezzare la spirale inflattiva.
Era il tempo in cui i contratti pubblici (in particolare quelli degli “statali”) davano la misura degli incrementi anche nei comparti privati.
Complessivamente questo processo comportò una perdita salariale, che oggi potremmo considerare moderata rispetto a quanto avvenne in seguito, ma che allora fu significativa. Fu causata in parte dalla svalutazione monetaria che Ciampi dovette decidere nel 1992 (7%), in parte dalla politica dei redditi dell’anno successivo (luglio 1993) che rallentò le dinamiche salariali.
Il primo decennio degli anni 2000 fu quello della contrattualizzazione del pubblico impiego, che aprì una limitata possibilità di recuperare nella contrattazione aziendale quello che non arrivava dai contratti nazionali. Ma ci fu anche qualche buon biennio economico, ad esempio quello siglato con Fini, ministro della Funzione Pubblica, ma a detrimento delle parti normative: ad esempio scomparve dal contratto ogni possibilità di confronto sui carichi di lavoro.
Ma il grande “buco nero” dei contratti pubblici corrisponde al periodo 2010-2018, in cui il ministro Brunetta decise (e i suoi successori confermarono) la sospensione della contrattazione nei comparti pubblici.
L’inflazione era ormai sotto controllo (il 3% fu raggiunto solo nel 2012) ma considerata in valori cumulativi corrisponde a circa 13 punti di inflazione, che equivalgono a una perdita del potere d’acquisto di 130 € ogni 1000 di salario.
Il blocco della contrattazione fu giudicato illegittimo nel giugno del 2016 dalla Corte Costituzionale, che ordinò la ripresa del confronto, ma lasciò alle parti ogni determinazione sul pregresso.
E infatti il CCNL 2016-18, divenuto triennale e firmato nel 2018, previde un incremento pari ai valori inflattivi del triennio, circa il 4%, ma non riuscì a recuperare neppure parzialmente la voragine brunettiana.
Ben 6 anni di vuoto contrattuale, dal 2010 al 2015, non furono mai compensati. La perdita fu di circa 9 punti di inflazione.
L’obiettivo di questo recupero rimase nelle piattaforme contrattuali e nei documenti congressuali, in cui si continua a parlare di aumento dei salari reali (ovvero di incrementi superiori all’inflazione), ma in realtà neppure nel triennio successivo (2019-2021) il CCNL delle Funzioni Locali andò oltre l’inflazione del periodo di competenza, circa il 4,5%.
Va rimarcato che il primo rinnovo triennale, a dispetto della autorevolezza della intimazione della Corte, fu sottoscritto alla fine del triennio, ovvero nel 2018. L’ultimo rinnovo è giunto nel novembre 2022, quasi un anno dopo la scadenza (31.12.2021), nonostante le finanziarie degli anni precedenti (Conte 1 e Conte 2) avessero accantonato risorse quasi in linea con gli incrementi.
Questo ritardo non è casuale ma programmato, perché costringe le parti a muoversi all’interno di risorse in parte o in tutto definite nelle leggi finanziarie già approvate e depotenzia la contrattazione reale.
Da questo punto di vista la triennalità dei rinnovi non solo non ha giovato ma ha peggiorato la situazione perché ha dato un maggiore margine di rinvio e ha aumentato il rischio che la responsabilità sia distribuita tra governi diversi, che non rispondono né degli impegni né delle mancanze di quelli che li hanno preceduti.
La norma per cui le piattaforme vanno presentate 6 mesi prima della scadenza del contratto precedente, in modo da dare tempo alla contrattazione, è divenuta quasi inapplicabile, perché in quei mesi si discute ancora del contratto la cui vigenza sta per scadere o è già scaduta. Quello della contrattazione è una specie di tempo parallelo a quello reale.
Siamo a metà del triennio 2022-24 e si prefigura un’altra voragine. L’inflazione del triennio, calcolata con gli indici IPCA (quella che si applica ai rinnovi contrattuali) è pari all’8,7% per il 2022, ed è prevista al 5,9% per il 2023 e al 2,8% per il 2024.
Si tratta di indici prudenziali e sicuramente inferiori all’erosione reale del potere d’acquisto, sia perché l’indice IPCA non considera gli incrementi dei prodotti energetici, che sono proprio quelli che hanno scatenato l’inflazione, sia perché i generi di prima necessità hanno registrato incrementi considerevolmente maggiori, con un effetto di erosione ancora più grave per i salari più bassi.
Ma anche così sottostimati, quegli indici danno un’inflazione cumulativa che alla fine del 2024 sarà pari al 17,4%.
La cosa più grave è che nessuna delle finanziarie del triennio ha accantonato risorse per i rinnovi: non quella di Draghi per il 2022, nonostante i segnali di inflazione fossero già chiari alla fine del 2021; non quella di Meloni per il 2023, nonostante l’evidenza del 2022. E nessuna pagina del DEF prefigura un impegno preciso per la finanziaria 2024, che dovrebbe compensare l’effetto dell’inflazione sugli stipendi dei lavoratori pubblici per l’intero triennio. Il DEF 2023 propone scostamenti di 3,5 miliardi per le detrazioni, di 4,5 miliardi per la riforma fiscale, ma niente per i contratti pubblici, il cui rinnovo richiederebbe stanziamenti di circa 30 miliardi, solo per compensare l’inflazione del triennio.
Se non riusciremo a spiegare ai lavoratori la drammaticità di questi mancati stanziamenti, se non riusciremo a mobilitarli e a portarli nelle piazze e a convincerli a scioperare, si prefigura – a fine 2024 – una erosione del loro potere d’acquisto superiore ai 170 € ogni 1000 di salario, circa 250 € per gli stipendi medio bassi, che sono quelli che richiedono maggiore tutela perché non hanno e non danno ai loro percettori alcun margine di risparmio.
I due scioperi proclamati insieme alla Uil il 16.12.2021 e il 16.12.2022 erano giunti tardi per la vana attesa della Cisl, con le categorie CgilFp e UilFpl poco sostenute dalle rispettive Confederazioni, e nel 2021 con uno stigma diffuso anche in ambienti di sinistra, perché ancora imperversava la pandemia e non dovevamo rompere, con uno sciopero, l’unità del paese. Invece, quest’anno siamo partiti per tempo, con le tre grandi mobilitazioni di Bologna, Milano e Napoli gremite e partecipate. Ma nonostante le piattaforme di quelle manifestazioni riportino tra gli obiettivi l’aumento dei salari reali, nei discorsi conclusivi dei leader sindacali la questione contrattuale è stata affrontata solo in modo incidentale, con uno spazio incredibilmente meno importante di quello che hanno avuto invece le detrazioni, questa elargizione padronale unilaterale che da anni pretende di sostituirsi a contratti decenti e continua ad erodere le entrate fiscali e quella previdenziali.
Nessuno ha dedicato neppure un cenno ai calcoli qui riportati, forse perché piattaforme chiare corrispondono a impegni chiari per obiettivi chiari, e tutta questa chiarezza non consente poi di presentare in modo trionfale risultati parziali o deludenti.
Crediamo invece che questa chiarezza davanti ai lavoratori sia la condizione necessaria, e purtroppo non ancora sufficiente, per ritrovare, rimotivare e reinnescare la loro partecipazione. E per questa via riconquistare prima un ascolto, poi un potere contrattuale che oggi dobbiamo riconoscere di non avere.
Gianni Pizzi
Delegato Rsu Comune di Milano
Pubblicato il 13 Giugno 2023