Taranto, vite sospese, tra licenziamento e inquinamento
Fabbriche praticamente ferma a Taranto, così come a Novi Ligure e a Cornigliano, ma studi legali – tra Milano e Roma – in febbrile attività. Oggi la situazione è questa, in poche parole, ma se vogliamo descrivere la situazione della più grande acciaieria europea, e del più grande polo industriale del meridione, occorre districarsi tra una decennale e complessa storia, in cui partiamo dalla politica industriale di Stato coraggiosa e lungimirante degli anni sessanta, una gestione successiva non particolarmente efficiente, per passare al cinismo della privatizzazione Riva, che calpestò consapevolmente difesa dell’ambiente e sicurezza del lavoro per comprimere i costi.
Poi le azioni dei lavoratori e di un’intera città, che di fronte all’aumento della mortalità non se la sentì più di scegliere se morire di fame subito o di tumore poi, consapevolezza che la città ha covato silenziosamente e dolorosamente per anni, fino all’esplosione di un forte movimento di piazza e alla condanna dei fratelli Riva, dopo l’esplosione della mortalità, che non ha perdonato nemmeno tanti bambini. Per anni lavoratori e ambiente hanno subito l’esposizione a diversi cancerogeni tra cui ferro, ossidi di ferro, arsenico, piombo, vanadio, nichel e cromo. Presenti nell’aria anche molibdeno, nichel, piombo, rame, selenio, vanadio, zinco, platino, ossidi di zolfo e di azoto, in particolare NO2. Capitolo a parte merita l’utilizzo all’interno dell’azienda dell’amianto, ancora largamente presente.
L’accordo di Calenda sulla cessione al gruppo Arcelor Mittal, tutto sommato riuscì, almeno sulla carta, nell’obiettivo di evitare gli esuberi, di imporre investimenti programmati e importanti nella bonifica degli ambienti di lavoro, con una road map di tappe e di verifiche programmate che sarebbe durata fino al 2023, dopo essere stato approvato in un referendum tra i lavoratori con il 93 per cento di voti favorevoli. Probabilmente il gruppo indiano si accorse dopo poco tempo che l’investimento non era potenzialmente così redditizio come era parso, stante le spese da sostenere – forse maggiori del previsto – in presenza per di più di un’imprevista congiuntura mondiale negativa dell’acciaio. Per questo la dirigenza colse la palla al balzo dell’insipiente annuncio da parte del governo giallo-verde della soppressione dello scudo penale, che per quanto si possa discutere nel principio, era parte integrante di un accordo e di impegni presi tra lo Stato italiano e l’azienda. Peraltro, l’abolizione dello scudo penale fu solo annunciato, ma mai attuato nel concreto, con anzi successivi goffi tentativi di rientrare sui propri passi.
Del resto, c’erano ambienti politici, in particolare vicini ai 5 stelle, che non nascondevano la volontà di chiudere del tutto lo stabilimento, nonostante gli allora 14.000 posti di lavoro, più l’indotto. Eppure, la scommessa di arrivare ad una produzione con ambienti di lavoro sicuro, con nuove e più efficienti infrastrutture, con un’atmosfera decarbonizzata e depurata, valeva e vale la pena di giocarla fino in fondo, se la miopia della politica italiana ed europea non impedisse di capire che si gioca un obiettivo strategico e sociale fondamentale, che non sta solo nel dipendere dall’acciaio cinese.
Oggi i dipendenti, tra pensionamenti e dimissioni sono scesi a 8.500 circa, di fatto sotto la soglia minima di efficienza produttiva per uno stabilimento di quelle dimensioni, che ha da poco spento il secondo altoforno. Ne rimane solo uno in attività, e non si sa per quanto. Arcelor Mittal rimane proprietaria del 62 % di una fabbrica che, anche all’impatto visivo, appare degradata e in dismissione, duramente impegnata, più che a gestire l’azienda, in una partita a scacchi con lo Stato, azionista di minoranza con Invitalia.
“Con il passaggio ad Acciaierie d’Italia (l’unione tra Arcelor Mittal e Invitalia, n.d.r.) ci aspettavamo che le cose migliorassero, ma l’azienda cade a pezzi. Ad esempio, c’è mancanza di DPI, occorre attendere mesi prima che vengano risolte delle problematiche; oltre a questo, gli impianti cadono a pezzi e mettono a rischio l’incolumità degli addetti. Oggi, viviamo una situazione di abbandono. Abbiamo denunciato più volte agli enti ispettivi (Spsal). Al problema si tenta di tamponare ma non c’è una progettualità. Ci sono stati infortuni anche mortali. Pochi mesi fa ai danni di un lavoratore dell’indotto (in appalto), dove si lavora con meno tutele e a ritmi forzati. Senza parlare, poi, della parte dei lavoratori che si occupa di manutenzione che per la maggior parte è in cassa integrazione” denuncia Giuseppe De Giorgio, uno degli R.L.S. aziendali.
Allo Stato gli indiani contestano ad esempio la mancata erogazione di 70 milioni di euro legati a un contratto di sviluppo del 2018, a cui Invitalia contrappone una risposta dall’impronta squisitamente italiano-kafkiano: tutto perfetto nelle procedure, ma il versamento non viene fatto perché “manca la condizione di certezza nella continuità produttiva aziendale, stante la grave crisi in cui versa l’azienda”. Peraltro, è noto che i governi sono già intervenuti due volte almeno per evitare che Snam Rete Gas staccasse la spina, perché manco si pagano le bollette. Si può ben comprendere l’ira di Michele De Palma, segretario nazionale Fiom, nel suo comunicato del 6 dicembre 2023: “Le notizie che trapelano dall’assemblea dei soci di Acciaierie d’Italia, in merito all’ennesimo rinvio, sono inaccettabili. È chiaro ormai l’intento di Arcelor Mittal di minare l’ex Ilva non dando avvio alla ricapitalizzazione ed impedendo gli investimenti necessari per garantire il presente ed il futuro del gruppo siderurgico. Il Governo italiano difenda la dignità del Paese, dignità che i lavoratori difendono scioperando per salvare gli impianti, evitando lo spegnimento di Afo2, e per garantire la transizione ecologica della produzione di acciaio. Il Governo non si faccia più tenere in ostaggio da Arcelor Mittal e nelle prossime ore intervenga per prendere il controllo e la gestione dell’azienda”.
Sulla decontaminazione della fabbrica l’amministrazione straordinaria ha già erogato a fine 2022 una somma di 726,8 milioni di euro, derivanti dal sequestro Riva per evasione fiscale. Ma nulla avverrà in caso di cessazione dell’attività. E così la nobile Taras greca, fondata secondo la mitologia dal figlio di Nettuno in persona, si ritroverà con una bomba ecologica alle porte della città e con migliaia di famiglie sul lastrico. E acciaio italiano addio per sempre. Un film dell’orrore che davvero non vogliamo vedere.
Davide Vasconi
Pubblicato il 16 Dicembre 2023