“Zero morti sul lavoro”? Ripartiamo dallo Statuto dei Lavoratori
Dallo sciopero dell’11 aprile alla manifestazione Cgil-Uil del 20: tutelare la sicurezza è una priorità assoluta
In marcia verso lo sciopero del giorno 11 aprile e la manifestazione di CGIL e UIL a Roma del 20. Ma se si vuole affrontare la non semplice riflessione sul valore della sicurezza sul lavoro, e soprattutto se si vuole capire come andare avanti in una vertenza pluridecennale, che non sempre ha ricevuto la sensibilità che si merita – sia detto anche per le organizzazioni sindacali – vale la pena di ripercorrere la storia del modello italiano sulla prevenzione, che è fondamentalmente contrattuale, e poco istituzionale, nonostante che le leggi non manchino.
Il punto di partenza è lo Statuto dei Lavoratori, che recita: “I lavoratori, mediante loro rappresentanze, hanno il diritto di controllare l’applicazione delle norme di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro idoneità fisica”. C’è un prima e un dopo questa pietra miliare, paragonabile ad una sorta di Genesi biblica, prima della quale vi era il nulla. Il rischio faceva parte di ogni mestiere, gli infortuni mortali non facevano notizia e, quando citati in un trafiletto di stampa, si parlava di “tragica fatalità”. Scarsa consapevolezza anche da parte delle stesse organizzazioni sindacali, che nella ancora embrionale contrattazione collettiva degli anni Sessanta tendevano alla monetizzazione del rischio piuttosto che alla prevenzione.
Eppure il legislatore illuminato e riformista, di cui si sente da anni la mancanza anche nelle forze e nelle diverse articolazioni della sinistra storica, aveva tracciato il primo riconoscimento legislativo dell’interesse collettivo della sicurezza del lavoro, mediante la previsione di rappresentanze specifiche dei lavoratori, poi sviluppatesi molti anni e con colpevole ritardo contrattuale dopo nella figura dei Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza.
Perché lo Statuto dei Lavoratori dedicò un espresso capitolo a questo tema? E non ad esempio su altre aree contrattuali importanti, come la retribuzione, l’orario e financo la difesa del posto di lavoro? Probabilmente perchè la sicurezza riguarda una sfera appartenente alla persona prima ancora che al lavoratore; il diritto alla salute come inseparabile del soggetto e indisponibile per qualsiasi datore di lavoro, interesse collettivo primario che diventa diritto alla vita stessa. Dimensione etica e dimensione sociale sono in tal modo intrinsecamente connesse.
Dopo questa vera e propria presa di coscienza di classe assistiamo a una prima promettente stagione contrattuale negli anni Settanta e Ottanta, con esperienze concentrate sulla capacità dei lavoratori di analizzare i processi di rischio, identificare i pericoli e definire soluzioni di prevenzione. Compaiono nelle fabbriche di amianto e nelle fonderie i primi impianti di aspirazione, nella metalmeccanica le prime protezioni passive, in Fiat i primi tentativi di soluzione ergonomica ai duri ritmi della catena, anche se questi ultimi con una certa venatura taylorista. Vi furono comunque esempi di buone pratiche che fecero scuola anche in Europa (cfr. “Il modello di lotta per la salute e sicurezza negli anni 1970 e 1980 dei lavoratori italiana”, Fondazione Di Vittorio, Bruxelles 10 febbraio 2016).
Al modello contrattuale, alla sua irrinunciabilità e ai suoi innegabili punti di forza si contrappone però un limite evidente fin da allora, e che scontiamo ancora in parte. Si procede soprattutto per campagne, magari sull’onda emotiva di gravi infortuni mortali, e non si vede un’azione continuativa volta alla verifica dei risultati ottenuti. Perchè gli accordi sindacali, si sa, non basta firmarli. Bisogna farli applicare. La grave crisi economica della fine degli anni Settanta, continuata anche negli anni Ottanta per il settore chimico – che passò in un vero e proprio tritacarne – rese inoltre marginale questo tema di fronte alla tenuta occupazionale e alla difesa dei salari reali.
C’è un secondo limite del modello contrattuale, a mio parere, evidente tutt’oggi e particolarmente in alcune aree del paese, ed è la mancanza di una rete diffusa di supporto esterno, cosiddetto istituzionale, alla rete delle rappresentanze per la sicurezza.
Progetto Lavoro, a puro titolo di esempio, si è già occupato dei gravissimi problemi in materia di sicurezza tutt’ora esistenti all’Ilva di Taranto, e di come alle segnalazioni degli RLS non corrisponda alcun intervento da parte del servizio di prevenzione territoriale. Pare che la vicenda Thyssenkrupp non abbia insegnato nulla. Peraltro, non si tratta solo di carenze nell’aspetto sanzionatorio, ma anche nella consulenza tecnica finalizzata alla costruzione di un buon impianto preventivo.
E inoltre, diciamocelo chiaro e tondo, la possibilità di ricorrere alla via giudiziaria si è rivelata spesso del tutto teorica. A meno che non intervenga di fronte all’ennesimo caso mortale o di gravi lesioni; in tal caso magari si ottiene giustizia – e mai abbastanza, stante che il reato di omicidio sul lavoro non è contemplato – ma resta tardiva e inadeguata di fronte all’irreparabile.
La dimensione contrattuale è servita a superare una dimensione puramente individuale ed episodica, basata più sugli scioperi e sul rifiuto alla prestazione dell’opera in ambiente nocivo o pericoloso. Anche se comunque può essere un incisivo strumento di pressione nei confronti del datore di lavoro per l’adozione delle misure necessarie, non risolve il problema nel suo complesso. E nel contesto di precarietà e di sotto occupazione a cui assistiamo in numerosi settori, come l’edilizia, risulta un’arma del tutto spuntata.
Davide Vasconi
Pubblicato il 9 Aprile 2024