Se Federmeccanica piange miseria
Al via la trattativa per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici: primo scoglio l’aumento dei salari. L’associazione imprenditoriale giudica troppo alte le richieste salariali presentate dai sindacati di categoria. Prossimo appuntamento tra le parti il 17 giugno
Ha preso il via nelle scorse settimane la trattativa per il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici, che si preannuncia – come sempre – lunga e complessa.
Federmeccanica ha confermato l’impostazione già espressa nelle comunicazioni inviate in questi mesi ai sindacati di categoria: la piattaforma sindacale, ha sostenuto l’organizzazione che riunisce le aziende del settore, non rispetta il Patto per la Fabbrica in quanto rivendica più risorse sui minimi retributivi rispetto all’inflazione programmata. Federmeccanica parte quindi con un primo NO sulle richieste salariali, ma anche sugli altri temi non lascia grandi margini di accordo.
Soprattutto, Federmeccanica ha voluto rimarcare, già in partenza, il valore e l’importanza del CCNL del 2016, sotto il profilo della coerenza su quanto fu allora condiviso unitariamente in quel modello sindacale, che invece noi contestammo radicalmente.
Fiom, Fim e Uilm hanno replicato alla controparte riaffermando l’appropriatezza della piattaforma; la Fiom lo ha esplicitato in modo diretto, sulla forma, rivendicando che la titolarità contrattuale appartiene comunque alle associazioni di settore e sul merito, visto che la riforma dell’inquadramento contrattata nel ccnl del 2021 non ha smesso di produrre effetti sulla produttività delle imprese e quelle risorse devono essere ancora redistribuite, con aumenti oltre l’IPCA, l’inflazione depurata dai costi energetici (anche considerando che, nel precedente rinnovo, ai lavoratori e alle lavoratrici questa parte eccedente l’inflazione, in realtà, non è mai arrivata).
Al termine del primo incontro tra le parti, Federmeccanica ha consegnato ai sindacati un documento, che sostanzia gli elementi di ostilità alla piattaforma sindacale, entrando nel merito di alcuni primi aspetti.
Le imprese metalmeccaniche, di fatto, piangono miseria (e non si tratta certo di una novità) a partire dai risultati di una inchiesta di Federmeccanica, condotta su circa 1.000 imprese a loro aderenti, per un totale di circa 200mila lavoratori coinvolti.
Dall’inchiesta emergerebbe che le imprese metalmeccaniche si sarebbero impoverite perché “più del 90% non ha trasferito integralmente l’incremento dei prezzi sui prodotti al cliente”. Ossia, nonostante siano aumentati i costi delle materie prime, le imprese non avrebbero aumentato i prezzi dei prodotti; e, avendo pagato “sostanziosi” aumenti ai lavoratori, avrebbero ridotto i propri margini, pagando quindi “due volte l’inflazione”. Una tesi piuttosto singolare, ma tant’è.
Peccato che pressoché tutti gli economisti siano concordi nell’affermare che l’inflazione è stata determinata proprio dall’aumento dei prezzi (a seguito dell’aumento dei costi energetici) e non dei salari. Dunque, stando alla tesi di Federmeccanica, le imprese metalmeccaniche sarebbero le uniche nel Paese a non aver gravato sul portafoglio dei cittadini-lavoratori.
Peraltro, Federmeccanica tace completamente gli aiuti dati dai governi di questi anni alle imprese per il caro bollette. Mentre si dilunga sulla misura del taglio del cuneo fiscale, come a dire che i benefici in busta paga sarebbero già garantiti dalle misure messe in atto dal governo e casomai devono essere rinnovati al 2025, senza la necessità di dover chiamare in causa gli imprenditori.
Federmeccanica si sofferma poi sulla precarietà del settore, considerata pressoché inesistente, in quanto il 95% dei lavoratori metalmeccanici sarebbero inquadrati a tempo indeterminato. Senonché, a ben vedere, i dati dell’inchiesta citata non contano i lavoratori somministrati e in ‘staff leasing’, che, secondo un’altra tabella non citata dal documento, sfiorano il 10% della forza-lavoro. Senza contare che i nuovi assunti (post 2015) subiscono giocoforza il Jobs act e, seppur inquadrati a tempo indeterminato, sono facilmente ricattabili o eventualmente licenziabili.
E ancora. Federmeccanica sostiene che non ci sia bisogno di una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, perché circa il 60% delle imprese accantona e monetizza i permessi annui retribuiti (PAR), mentre il 21% di queste monetizza persino le ferie (dimenticando di aggiungere che tale facoltà non sarebbe ammessa dalla legge).
Quasi taciuto da Federmeccanica, almeno per ora, il tema dell’insicurezza strutturale del sistema degli appalti e subappalti, che costringe troppi lavoratori e lavoratrici a rischiare la vita ogni giorno in fabbrica come sul cantiere.
Insomma, siamo solo all’inizio, non ci sono pregiudiziali esplicite; quindi si parte a trattare ma il percorso è decisamente in salita, con Federmeccanica che, nel solito richiamo al binomio “sostenibilità e competitività” e forte del modello contrattuale del 2016 e dei vincoli imposti dal Patto per la Fabbrica, vorrebbe riconoscere il solo recupero dell’inflazione programmata (depurata dai costi energetici) e l’eventuale distribuzione della ricchezza là dove viene prodotta. Come a dire: la redistribuzione della ricchezza oltre l’inflazione può essere ammesse soltanto a livello aziendale, con premi rigorosamente variabili, mentre gli aumenti in busta paga spettano al Governo e alla proroga del taglio del cuneo fiscale anche per gli anni a venire.
Nel frattempo, è uscito il dato sull’aumento previsto nella prossima busta paga dei metalmeccanici e delle metalmeccaniche per effetto del contratto ancora in essere: 137 euro lorde al livello C3, pari all’inflazione IPCA registrata nel 2023. Può sembrare tanto rispetto agli altri settori, ma è pur sempre soltanto il recupero di una parte dell’inflazione, cioè di quanto le buste paga in questi mesi hanno perso in termini di potere d’acquisto.
Il prossimo appuntamento tra le parti è fissato per il 17 giugno e parte, insolitamente, con all’ordine del giorno uno dei principali scogli della trattativa: la questione salariale.
Pubblicato il 11 Giugno 2024