Diritti sociali più diritti civili: la lezione del Pride dopo 50 anni
Eliana Como: “C’è una dimensione di classe che forse non esaurisce ma certamente attraversa ogni istanza di liberazione. Il nostro compito di sindacalisti/e è anche porci il tema di come nel mondo del lavoro ognuno vive la propria identità di genere”
La storia del Pride nasce con una forte presa di coscienza politica e rivendicativa, oltre che identitaria, a partire, come è noto, dai fatti di Stonewall del 28 giugno 1969, quando, per la prima volta, improvvisamente, la comunità LGBT+ di New York reagisce e si ribella alle sistematiche retate della Polizia.
In Italia, la storia inizia poco dopo, nel 1971 a Torino, con la nascita del FUORI, Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano, una organizzazione apertamente marxista, nata nel contesto delle lotte e dei conflitti di classe degli anni 70.
L’anno dopo, alcuni militanti del FUORI salgono sul palco di Sanremo durante il Festival e denunciano il Congresso internazionale di sessuologia, dedicato ai “comportamenti devianti della sessualità umana” che si tiene in quegli stessi giorni, poco distante dall’Ariston. È la prima volta che le istanze radicali del movimento LGBT+ squarciano la coltre di ipocrisia e irrompono nelle case delle famiglie italiane.
La prima festa dell’orgoglio omosessuale (allora si chiamava così) è del 1981, si tiene a Palermo e, in qualche modo, è la reazione determinata dalla grande ondata di proteste che fa seguito al delitto di Giarre, avvenuto l’anno prima, nel 1980, in provincia di Catania. Due giovani ragazzi omosessuali vengono trovati senza vita all’ombra di un grande pino marittimo a ridosso delle pendici nere dell’Etna e poco lontano da Taormina. Inizialmente viene fatto passare come un suicidio di coppia. Poco dopo, si scoprirà che sono stati ammazzati. L’inchiesta viene chiusa il più rapidamente possibile, accettando per buona la confessione, poi ritrattata, del giovanissimo cugino di uno dei due, che raccontò di essere stato costretto con la forza da loro stessi a premere il grilletto per ucciderli. Su questo, rimando al bellissimo libro di Francesco Lepore, “Il delitto di Giarre”, che riapre il caso, gettando una nuova luce sulla vicenda e ricostruendo l’esplosione improvvisa del movimento LGBT+ che da essa derivò.
Il primo Pride nazionale ufficiale si tiene ancora dopo, nel 1994, a Roma. Segue, anni dopo, un momento determinante di questa storia, quando, nel 2000, in concomitanza con il Giubileo di Papa Giovanni Paolo II, Roma ospita per la prima volta il World Pride. È un avvenimento decisivo. Una grandissima provocazione nella città che ospita uno dei più grandi eventi religiosi del mondo, in una giornata meravigliosa: ne ho un ricordo vivido nella memoria, con Roma inondata dal sole, che per la prima volta, a partire dal protagonismo della comunità LGBT+, ospita un Pride che va oltre l’orgoglio omosessuale e a cui partecipa tutto il movimento che a vario titolo si riconosce nella lotta per i diritti civili.
Nei 10 anni successivi il Pride è diventato sempre più importante, prima in una sola città scelta ogni anno, poi, dal 2014, ovunque. “Onda Pride”, che finalmente perde la definizione “Gay Pride”, non è più un macroevento in un’unica città, ma tante e diffuse manifestazioni locali per tutto il mese di giugno.
Il suo significato, la sua centralità si trasforma. Sono stati fatti grandi passi in avanti, da quando la parata era vista come qualcosa di osceno e deprecabile. D’altra parte, l’eccesso e la provocazione sono da sempre stati tratti fondamentali del Pride, perché l’obiettivo esplicito era, e continua ad essere, il fatto di rivendicare ed esporre con orgoglio ciò che un tempo la società voleva che restasse invisibile.
Oggi viviamo un attacco violento ai diritti civili, la lobby familista è nel Governo di questo paese e di molti altri in Europa. La maggior parte dei problemi che le persone LGBT+ vivono quotidianamente non è affatto risolta: i corpi, le identità, le vite delle persone LGBT+ sono costantemente sotto attacco. D’altra parte, è sempre più complesso l’intreccio intersezionale con gli altri macrotemi che attraversano le nostre vite: lo sfruttamento, la crisi climatica, la guerra. C’è più che mai bisogno di Pride.
Ma è altrettanto innegabile che, rispetto a 40 anni fa, molte istanze LGBT+ sono entrate nella cultura quotidiana e il Pride stesso è diventato un evento di massa. Questo ha prodotto anche una serie di rischi rispetto alle istanze originarie. Da un lato, il rapporto con le istituzioni e con la politica rischia di «normalizzare» il Pride e far passare in secondo piano la radicalità originaria del movimento. Dall’altro, si fa avanti il rischio di una trasformazione del Pride da manifestazione politica a grande show ed evento commerciale, con la presenza, soprattutto nelle città più grandi, dei grandi brand, che si inseriscono con la loro pervasività all’interno di un mondo, delle sue lotte e delle sue rivendicazioni.
È pressoché innegabile che la pubblicità abbia giocato un ruolo importante nell’emancipazione LGBT+ contribuendo a plasmare l’immaginario collettivo e simbolico e rafforzando anche la legittimità di alcuni temi che da sempre sono stati oggetto di rivendicazione del movimento. Chi ha il potere economico è in grado di fare egemonia culturale, non ci sono dubbi. Ma, dall’altra parte, questo pone alcune irrinunciabili questioni di fondo. Quale agenda LGBT+ viene portata avanti dalle aziende, quali rivendicazioni sono compatibili e quali invece ne restano fuori? Quale è il rischio del cosiddetto “rainbow washing”? Le aziende che si costruiscono un’immagine progressista cosa fanno di concreto per la comunità LGBT+, quante volte, anzi portano avanti pratiche aziendali nettamente in contrasto con i valori del Pride? Ma poi, a monte, cosa comporta il fatto che le aziende facciano profitti vendendo i contenuti Lgbt+, come fossero un brand, peraltro senza redistribuirli, alle comunità che quei contenuti li generano o e sulla cui pelle vengono generati? Rimando su questo a un articolo di Enrico Gullo su gaypost.it (rintracciabile al link https://www.gaypost.it/pride-business-enrico-gullo).
Anche per queste ragioni, da alcuni anni, sono nate in alcune città esperienze di Pride “alternativi” e/o “antagonisti”. Significativa l’esperienza di Bologna, dove il Rivolta Pride, la rete di collettivi e associazioni cittadine LGBT+, ha ricomposto in un unico tavolo assembleare il Pride tradizionale con quello nato in modo alternativo.
Le realtà territoriali sono molto diverse tra loro, per storia e per contesto sociale, culturale ed economico. Non c’è probabilmente una pratica giusta e una invece sbagliata, una più radicale e democratica e una meno. Se fosse così, non spetterebbe comunque a me dirlo. Per me è utile provare a capire cosa è oggi il Pride e quali sono le dinamiche, le potenzialità e i rischi che lo attraversano, nel rispetto dell’autodeterminazione delle soggettività direttamente coinvolte.
Con la consapevolezza che la lotta per i diritti sociali non è altra cosa da quella per i diritti civili, che c’è una dimensione di classe che forse non esaurisce ma certamente attraversa ogni istanza di liberazione, individuale e collettiva. E che il nostro compito, come sindacalisti/e, non è soltanto quello di lottare contro sfruttamento, precarietà e bassi salari, ma anche porci il tema di come nel mondo del lavoro ognuno vive se stesso e la propria identità di genere.
Per questo, buon Pride a tutte e tutti!
Eliana Como
Pubblicato il 26 Giugno 2024