Alle radici della crisi
Gli accadimenti internazionali contemplano in modo inscindibile l’economia, la politica e la società
Per provare ad orientarsi nel marasma economico internazionale, è certamente utile esaminare i dati della crisi, che coinvolge in modo inscindibile l’economia, la politica e la società.
Dobbiamo anzitutto osservare quali sono i fenomeni economici e politici di lungo periodo che caratterizzano l’economia capitalistica. Le “onde lunghe” di durata secolare sono caratterizzate dalla comparsa di una nuova tecnologia pervasiva che caratterizza un’intera epoca e promuove la crescita dell’occupazione e con essa della domanda solvibile, dei consumi e del benessere. Quando questa tecnologia raggiunge la maturità, la saturazione prima dei mezzi di produzione e poi della domanda solvibile determina la caduta del saggio di profitto, una distruzione di lavoro e capitale, la crescita della finanza alla ricerca d’una valorizzazione del capitale senza produzione, fino alla crisi. La ripartenza è prodotta da una nuova ondata tecnologica che ricomincia il ciclo, con la crescita della produzione e dell’occupazione, ma esige anche un’estensione del mercato capitalistico, attraverso la periferizzazione subalterna di aree esterne (ma non ce ne sono più e si rimedia portando il terzo mondo in casa con l’immigrazione senza diritti e precarizzando il lavoro) e la rimercatizzazione di settori prima sottratti al mercato (come la sanità).
Alcuni autorevoli economisti, come Summers, hanno rilevato come le nuove tecnologie informatiche siano sostitutive di forza lavoro e dunque incapaci di avviare un nuovo ciclo stabile di sviluppo, per cui siamo entrati in una “stagnazione secolare”, di bassa crescita e continue esplosioni di effimere bolle finanziarie.
Ai cicli lunghi è spesso associata la “crisi climaterica” del Paese dominante, che apre una guerra di successione, come è avvenuto col declino dell’impero britannico che ha causato un conflitto planetario, con i due episodi delle guerre mondiali da cui è emerso il “secolo breve americano”, caratterizzato dal dominio del dollaro, che ha consentito agli Stati Uniti, attraverso il “signoraggio del dollaro” di vivere sopra i propri mezzi, facendosi finanziare dal resto del mondo. Queste transizioni di egemonia sono in genere assai conflittuali, perché la potenza dominante cerca di resistere alla pressione dei Paesi emergenti anche con la sua potenza militare.
Oggi siamo appunto al declino dell’“impero americano” e del dollaro, con l’emergere dei Brics che intendono opporre all’unipolarismo bellicista americano un multipolarismo collaborativo, con l’abbandono del dollaro come moneta di riserva e di scambio. La “terza guerra mondiale strisciante”, descritta da Papa Francesco, è appunto l’effetto di questo conflitto di egemonia, che esplode in varie parti del mondo e potrebbe essere la “guerra larga”, di lunga durata, come qualche geopolitico l’ha descritta.
La situazione economica e politica attuale
Le previsioni sul futuro andamento dell’economia sono sempre più difficili perché occorre fare i conti con numerose variabili impazzite del cambiamento climatico e delle turbolenze geopolitiche, dagli eventi climatici estremi alle guerre e il connesso incremento delle spese militari e dei prezzi dei carburanti, alla crisi demografica con disoccupazione e carenza di manodopera qualificata falcidiata dall’emigrazione dei laureati all’estero, alla montagna del debito pubblico mondiale che ha superato i 100mila miliardi di dollari nel 2024 (il 93% del Pil globale, e raggiungerà il 100% nel 2030), al costo della riconversione climatica, all’aumento della povertà e della diseguaglianza, all’inflazione ancora al di sopra degli obiettivi delle banche centrali e con possibili impennate dei prezzi a causa della guerra dei dazi e del gas. Con le politiche protezionistiche e le controverse misure di politica fiscale che costituiscono un rischio di declino per l’economia mondiale. Risulta dunque sempre più evidente la stretta connessione fra la situazione economica mondiale, caratterizzata da profonde incertezze, e quella politica che la influenza profondamente, con particolare riferimento alle guerre in corso.
Le previsioni degli organismi internazionali, Fmi, Ocse, Ue sul 2025 tendono a tranquillizzare, ricevendo però continue smentite, anche se lasciano poco spazio a speranze di miglioramento e avvertono dei numerosi enormi rischi che possono derivare dalle pesanti incognite che ci aspettano: a cominciare dalle farneticazioni di Trump che intende conquistare, anche con le armi, il Canale di Panama, ma anche il Canada e la Groenlandia danese, che fanno parte della NATO, e “scatenare l’inferno” su Gaza, senza accorgersi che hanno già fatto tutto gli israeliani.
Secondo l’FMI, nonostante il brusco e sincronizzato innalzamento, avvenuto negli anni scorsi in tutto il mondo, dei tassi di interesse per combattere l’inflazione, che resiste al di sopra degli obiettivi delle banche centrali, è stata evitata la stagflazione ed una recessione mondiale, ma sono avvenuti profondi cambiamenti negli assetti economici globali e il futuro ritmo di espansione sarà basso rispetto agli standard storici.
I fattori globali che influiscono sulle attuali prospettive economiche e politiche europee, strettamente collegate fra loro, non sono solo congiunturali, ma derivano da mutamenti strutturali, destinati a permanere stabilmente. Sono la debolezza dei consumi privati (per l’abbassamento del potere d’acquisto di salari e pensioni, il vasto impoverimento della popolazione con l’aumento delle diseguaglianze e l’invecchiamento prodotto dal declino demografico dell’Occidente), e di quelli pubblici, per le politiche di austerità e taglio dei bilanci. Inoltre, il mutamento del modello tecnologico, col passaggio all’auto elettrica, ha rivoluzionato le gerarchie produttive mondiali, a vantaggio della Cina, che controlla la produzione del 95% delle “terre rare”, necessarie alle nuove batterie, e dei Brics. Il prezzo assai caro delle auto elettriche e soprattutto delle batterie, sancirà il passaggio delle auto da beni di consumo di massa ad un prodotto elitario, accessibile solo ai più abbienti, e l’incertezza rispetto alle prospettive future ha determinato il blocco del mercato dell’auto e la crisi delle industrie automobilistiche europee, che stanno chiudendo gli stabilimenti.
I produttori di armi fanno affari d’oro
Le aziende che producono armi e servizi militari in tutto il mondo hanno registrato un’impennata di extraprofitti, che ha raggiunto, per le prime cento nel mondo, i 632 miliardi di dollari nel 2023, in particolare quelle americane (41 con 317 miliardi di dollari, la metà del totale, e le prime 5 sono tutte americane), e poi francesi, tedesche, inglesi, turche, e per le imprese belliche italiane l’utile è aumentato del 45% in due anni.
Secondo Lorenzo Scarazzato, ricercatore del Sipri, i profitti di queste aziende sono probabilmente assai maggiori di quelli comunicati ufficialmente e nei prossimi anni vedremo che questo è solo l’inizio. La produzione ha riguardato in particolare aerei, droni, carri armati ma anche lo sviluppo e l’ammodernamento delle armi nucleari. È il risultato delle guerre in Ucraina e a Gaza, che hanno portato a livelli record la spesa militare (la nuova Commissione Ue intende investirvi almeno 100 miliardi nel bilancio), ma anche d’una generale corsa agli armamenti, con un’impennata degli ordini che ha riguardato anche le aziende più piccole in Svezia, Ucraina, Polonia, Norvegia e Cechia che si sono mostrate le più dinamiche.
Il nuovo segretario della Nato Rütte, che era il capo dei paesi “frugali” e un acerrimo nemico dell’Italia (votando contro gli aiuti europei al nostro paese, perché ci considera scialacquatori nullafacenti, mentre l’Olanda, di cui era il premier, campa sull’elusione fiscale dei grandi gruppi industriali italiani ed europei), ha chiesto di innalzare la spesa militare dal precedente 2% ad almeno 3-4%, da finanziare col taglio della spesa sociale, e Trump ha chiesto addirittura il 5% (ora noi siamo all’1,68%, Francia 1,94%, Germania 1,39%, Gran Bretagna 2,23, Giappone 1,08%), considerando che gli Stati Uniti spendono 877 miliardi all’anno, contro i 292 della Cina e gli 86 della Russia.
Dunque, è in atto il passaggio storico dal “welfare” al “warfare”, ovvero ad un’economia di guerra, come ha precisato Rütte, tagliando le spese sociali, con l’applicazione delle sanzioni e consistenti investimenti nel riarmo, già in atto, ma che sono destinati ad aumentare fortemente. Il nuovo commissario alla Difesa europeo, Kubilius, spinge per un consistente aumento della spesa, sostenendo che “bisogna ragionare in chiave antirussa”, l’1% di Pil Ue in più vuol dire 200 miliardi, che non basta. Germania e Paesi Bassi tornano a guidare il gruppo dei cosiddetti ‘frugali’, contrari a politiche di spesa pubblica soprattutto se comune e si oppongono all’uso di nuovi eurobond per la difesa.
Un altro aspetto dei conflitti in corso, che influisce negativamente sull’economia, ma in termini assai differenziati fra i vari paesi, è stata l’applicazione delle sanzioni, che hanno avvantaggiato gli Stati Uniti, poco colpiti perché poco esposti al commercio con la Russia e favoriti sia dalla vendita di armi che di combustibili fossili, perché il rialzo dei prezzi del gas a causa del blocco delle importazione europee dalla Russia, ha consentito loro di vendere il gas e il petrolio di scisto, di pessima qualità e devastante per l’ambiente, che altrimenti sarebbe stato assolutamente fuori mercato. Trump ha annunciato di voler imporre alla UE l’obbligo di rifornirsi di carburanti dagli Stati Uniti.
Anche la Russia, destinataria delle sanzioni, non ha sofferto molto, perché è attualmente ai primi posti fra i grandi paesi nella crescita del PIL 2024 a livello mondiale, con il 3,1%, dopo India (5,4%), Indonesia (4,96%), Cina (4,6%), Brasile (4%) e Spagna (3,3%), davanti agli Stati Uniti, sostanzialmente stabili, ma con un rallentamento del mercato del lavoro che produrrà una graduale decelerazione anche dei consumi, e soprattutto all’Unione Europea (0,9%), con Francia, Germania, Italia, Giappone, largamente distanziati. Esiste dunque una frattura a livello mondiale fra la crescita dei Brics, in particolare India, Indonesia, Cina e Brasile, ed una stagnazione o declino delle economie avanzate, con l’eccezione della Spagna e degli Stati Uniti.
Per affrontare la policrisi in atto, occorre certamente impegnarsi in una lotta per un approccio sistemico di intervento globale, tenendo conto che società, clima, economia e natura costituiscono un insieme altamente interconnesso e devono essere affrontati nella loro complessità.
Giancarlo Saccoman
Pubblicato il 29 Gennaio 2025