Patto per l’innovazione e la coesione sociale: ne valeva la pena?
Il “Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale”, sottoscritto il 10 marzo tra Governo e CGIL-CISL-UIL, presenta numerosi elementi di preoccupazione per le lavoratrici ed i lavoratori del pubblico impiego. E’ abbastanza sorprendente che all’indomani della firma non si siano registrate consistenti voci di riflessione critica all’interno e al di fuori del sindacato, mentre la frettolosa adesione dei vertici confederali al documento pattizio blinda pericolosamente la parte economica, non migliora in nulla le attuali norme di relazioni sindacali e, last but not least, delimita l’autonomia contrattuale della Funzione Pubblica con misure d’ingombro difficilmente superabili. Ecco alcuni spunti di riflessione.
Relazioni sindacali. Su questo punto lapremessa generale del Patto non fa altro che ribadire concetti già noti e pratiche già acquisite. Lo schema proposto dall’accordo è già contenuto nell’articolato dei contratti scaduti. Le modifiche potenzialmente migliorative proposte, relative all’organizzazione del lavoro e alla distribuzione delle risorse, non solo non coinvolgono le rappresentanze sindacali dei luoghi di lavoro – le RSU non sono mai state menzionate – ma non rendono giustizia al lavoro sindacale di grande responsabilità esercitato in questi ultimi 27 mesi di vuoto contrattuale.
Flessibilità. Il frequente richiamo al concetto diflessibilità, nelle tre variabili (gestione delle risorse umane, organizzazione del lavoro e tecnologia) nasconde la pericolosa possibilità di ridurre le garanzie sul posto di lavoro, favorire l’arbitrarietà del passaggio di competenze (senza escludere il demansionamento temporaneo o permanente) e aumentare la discrezionalità organizzativa dei responsabili delle unità operative e dei dipartimenti.
Produttività. La richiesta di una “disciplina che garantisca la produttività” anche nel lavoro domiciliare a distanza, con l’intento di un suo consolidamento per superare la gestione emergenziale, pone seri dubbi sulle condizioni di lavoro, specie delle donne, in questa condizione, in assenza di garanzie certe e di strumenti informatici adeguati. Più in generale, il costante richiamo allaproduttività risulta ambiguo e pericoloso, specie se legato al lavoro pubblico, amministrativo o sanitario che sia, dove non sempre è facile valutare la qualità e l’efficienza con meri parametri quantitativi.
Retribuzione. La frettolosa blindatura dei termini economici dei rinnovi contrattuali 2019-2021, senza nulla aggiungere agli elementi già previsti dal precedente contratto, di fatto annulla la possibilità di una contrattazione al rialzo per la parte retributiva, a fronte invece di una proclamata maggiore disponibilità di bilancio pubblico, specie alla luce del Recovery Fund. Lo sciopero dello scorso 9 dicembre del 2020 non ottiene risposte adeguate e dignitose. Avremo aumenti salariali nell’ordine dei 35/40 euro medi netti per la stragrande maggioranza degli addetti: i 107 euro sono una cifra che andrà in larga misura solo ad una parte dei dipendenti pubblici e continuerà ad aumentare la forbice reddituale. Perché quindi accettare cifre del tutto simili a quelle già previste, se abbiamo sostenuto uno sciopero generale?
Inoltre il maggior peso dato alla contrattazione decentrata pone seri dubbi sulla possibilità di recuperare, con questo strumento, un effettivo adeguamento salariale, specie di fronte alla severa sofferenza economica di molte aziende pubbliche ed enti locali, e rischia di aumentare ulteriormente la disparità tra nord e sud, tra centri urbani e periferia.
Occupazione. Se si pensa alla rivendicazione della CGIL per un piano straordinario di assunzioni, appare davvero fuori luogo un commento positivo a fronte di una proposta debole, che non dice nulla sullo sblocco dei concorsi già previsti dal precedente Governo, che non si pone nell’ottica della stabilizzazione del personale precario, che anzi rischia di continuare il riscorso alle assunzioni a tempo determinato, che punta al ricorso del meccanismo degli incarichi in mano alla discrezionalità dei dirigenti.
Le recentissime dichiarazioni del ministro Brunetta dopo il decreto del 31 marzo vanno in questo senso: ampliamento del meccanismo di reclutamento degli esterni, che per loro natura sono triennali, magari forzando la quota del 10% della dotazione organica prevista dal dlgs 165/2001; “snellimento” dei concorsi con la digitalizzazione (qualsiasi cosa voglia dire); reclutamento di figure professionali con contratti a termine legati alle scadenze di singoli progetti finanziati dall’Europa, per un massimo di 5 anni.
Operatori sanitari e pubblici. Se poteva quindi apparire riduttivo reclamare il mero turn over paritario tra pensionati e nuovi addetti, ignorando così il depauperamento nelle Pubbliche Amministrazioni negli ultimi dieci anni, provocato da leggi inique (basti ricordare la mancanza di medici e infermieri che oggi indebolisce l’assistenza straordinaria richiesta dal Covid e la piena attuazione dei piani vaccinali), ora, alla luce di quanto considerato, appare difficile raggiungere persino questo obiettivo “di minima”. Siamo lontani dal raggiungere la creazione di lavoro stabile di qualità e ben retribuito, così come auspicato dal Patto, con una evidente distanza tra enunciazioni e proposte.
Welfare contrattuale. La ventilata implementazione del welfare contrattuale è un grave punto di caduta del Patto, mentre la CGIL dovrebbe contrastare in ogni modo un istituto che trasferisce la retribuzione dal salario ai servizi; riduce ulteriormente il finanziamento dei servizi pubblici, in primis quello sanitario; lede un principio sempre sostenuto dal sindacato, quello di uguaglianza, creando una evidente disparità di accesso al welfare tra occupati pubblici da un lato e lavoratori precari e pensionati dall’altro. Inoltre la previdenza integrativa non può essere la risposta per milioni di lavoratrici e lavoratori, mentre invece andrebbero risolte, ad esempio, la stortura dell’attesa di 27 mesi da parte dei pensionati per il riconoscimento delle loro liquidazioni, così come la prospettiva dei bassissimi rendimenti del lavoro povero nelle Pubbliche Amministrazioni
Concludendo. Il “Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale”, apparentemente banale ad una prima superficiale lettura, in realtà rende già espliciti alcuni propositi non condivisibili e, nel non detto, nasconde pericolose insidie. Dobbiamo impedire che il governo abbia mano libera di operare in piena discrezionalità, magari portando a pretesto il previo consenso del sindacato in nome della coesione sociale.
Pierpaolo Brovedani
FP-CGIL Trieste
Pubblicato il 5 Marzo 2022