Edili e non solo: “Un po’ di socialismo contro la barbarie!”
Intervista ad Alessandro Genovesi, segretario generale Fillea: dal dramma-insicurezza ai temi del Congresso: classe 1977, è alla guida della categoria degli edili dal luglio 2016. Ha “incontrato” la Cgil a 20 anni, quando ha iniziato a collaborare con il Dipartimento per le politiche sociali, ma il vero e proprio percorso sindacale lo ha cominciato nel 2003 ed è proseguito fino ad oggi. Nella nostra conversazione con il segretario generale della Fillea abbiamo toccato vari temi, dal dramma-insicurezza sul lavoro alle conseguenze del conflitto in corso, fino all’imminente avvio del Congresso.
Prima, però, ti sollecitiamo su una vicenda di strettissima attualità, che riguarda la categoria: festeggiate il 136simo anniversario ed è impossibile stilare un bilancio di un periodo così lungo. Ma quanto e come è cambiato il lavoro edilizio a cavallo tra la fine dell’Ottocento e il nuovo millennio? Quali “vittorie” potete festeggiare? Su quali sconfitte interrogarsi? E che cosa attendersi da qui ai prossimi cento anni?
La storia sindacale della Fillea – che non rappresenta solo gli edili ma anche i lavoratori del legno, delle cave, del cemento, dei laterizi ecc. – si intreccia con la storia del Paese e con i suoi cambiamenti (sociali, ma anche degli assetti urbani, dei flussi migratori, delle tecniche produttive) e più in generale è parte della storia dell’intero movimento sindacale e della Cgil (di cui fu tra i fondatori nel 1906). Con una serie però di specificità: la costruzione di tutele collettive e di identità in un mondo del lavoro strutturalmente discontinuo, mobile, con piccole aziende, sottoposto alle stagioni e, molto più di quanto si pensi, ai salti tecnologici. Questo vale soprattutto in edilizia, dove abbiamo costruito un sistema di tutele nel cantiere ma anche nel mercato del lavoro, pensato in termini pre-fordisti (cioè prima del lavoro di tutta una vita in una grande fabbrica) ed oggi attualissimo nel post-fordismo (ora in tanti si è discontinui, si lavora in PMI, ci si sposta, si hanno periodi di non lavoro). Tutto il sistema della Casse Edili, della Scuole Edili e dei CPT oggi ricompone ciò è disperso e potrebbe essere un modello per tanti altri settori.
Molte delle vostre parole d’ordine centenarie effettivamente sembrano attualissime…
“No agli appalti selvaggi, fuori la mafia dal cantiere, vogliamo stabilità occupazionale, basta morti sul lavoro, vogliamo la riforma urbana, diritto alla casa per tutti”: sì, sono slogan che nelle foto presenti nel libro appena uscito (136 anni di battaglie di Marielisa Serone, per Futura Ediesse) risalgono agli anni 50, 60, 70 e 80. Negli stessi impianti fissi, penso alle cementerie, con il tema della transizione e dell’efficienza energetica ci confrontiamo da almeno 20 anni. Insomma, sconfitte ovviamente tante, ma abbiamo raggiunto risultati importanti anche, soprattutto negli ultimi anni (congruità, parità nei sub appalti, nuove norme sulla sicurezza, riforma degli inquadramenti, centralità del salario), con ottimi rinnovi come ci ha confermato lo stesso Istat. Soprattutto le battaglie della Fillea sono da sempre fortemente confederali: da un governo democratico della pianificazione urbanistica a zero consumo suolo, dal risanamento delle periferie e dal diritto alla casa al diritto ad avere strade e ferrovie soprattutto al Sud, fino ai temi ambientali, sui nuovi materiali, sul riciclo e riuso che, come categoria, portiamo avanti da almeno 30 anni. Senza considerare temi come la riforma delle pensioni o la salute e sicurezza.
Appunto: la piaga delle morti sul lavoro, ipocritamente definite “morti bianche”, è lontanissima dall’essere sconfitta. In Italia muore un lavoratore ogni otto ore: numeri mostruosi che appaiono sempre distanti anni luce dalle priorità dell’agenda politica. Quali sono le cause più profonde del fenomeno? Su quali misure sta lavorando il sindacato per provare ad affrontarlo? Che cosa chiede la Categoria alla politica e che cosa rivendica dalle organizzazioni datoriali?
Le morti sul lavoro raramente sono frutto del caso. Sono gli effetti di organizzazioni del lavoro povere, di imprese piccole che non investono, di scarsa formazione, di carichi di lavoro e di orari eccessivi. Le norme ci sono ed in alcuni casi sono anche avanzate sia in termini specifici (pensiamo a come è stato riscritto l’art. 14 del dlgs. 81/2008 dal Ministro Orlando) che generali (perché tutto ciò che manda in pensione prima i lavoratori gravosi, i più esposti con l’aumento dell’età o tutto ciò che combatte il lavoro nero, vedi Durc di Congruità, indirettamente agisce sul rischio infortuni). Il problema è che si è indebolito il presidio del territorio, dai medici del lavoro all’ispettorato, alle ASL, a INPS e INAIL. Non giriamoci intorno: è vero che c’è un problema culturale, è vero che occorre premiare i più virtuosi, però se vi è sempre (o quasi) la certezza che nessuno verrà a chiedermi conto di quello che sto facendo, alimentiamo solo superficialità e sottovalutazioni, per non dire di peggio.
Ad oltre tre mesi dall’inizio della guerra in Ucraina, l’attenzione della politica e dei mass media si è spostata sulle drammatiche ricadute economiche: crisi energetica, tariffe alle stelle, preoccupazioni sull’approvvigionamento alimentare, inflazione galoppante. Come vive la Fillea questo dramma? Come il protrarsi del conflitto potrà incidere sul mercato delle costruzioni e, più in generale sul settore nel suo complesso?
C’è la guerra per una responsabilità precisa: Putin ha fatto carta straccia del diritto ed ha invaso una nazione sovrana. Quindi le sanzioni economiche sono una risposta classica prevista dallo stesso diritto internazionale. Detto questo, però, un’economia di guerra la pagano sempre i soggetti più deboli. Nel mondo: e lo vediamo con la crisi alimentare in Africa. Nelle società cosiddette ricche, dalle fasce di popolazione più debole, più esposte all’inflazione e all’aumento del costo della vita. Settorialmente, quando poi si riducono le materie prime o si innalzano i loro prezzi, chi vive di trasformazione come l’Italia paga due volte. L’edilizia non scappa da questa regola, anzi anche prima della guerra un eccesso improvviso da “domanda”, legato ai vari bonus e super bonus, sommandosi alla destrutturazione delle catene internazionali delle forniture a seguito del lock down, aveva visto impennarsi prezzi e costi. Detto ciò, la pace va ricercata prima ancora che per motivi solo economici (che pure sono importanti) per motivi più generali: dove ci porterebbe un riarmo generalizzato? Dove ci porterebbe un mondo senza un’Europa autonoma e che prova a presentarsi come modello politico e sociale anche per altri? E veramente pensiamo di poter tenere insieme il conflitto armato e l’esigenza di una riconversione ecologica che, se non attuata, ci porterà tutti a scomparire? Anzi, per assurdo, proprio il rischio di una economia di guerra, proprio il palesarsi di una forte dipendenza dal gas e dal petrolio deve farci accelerare nella transizione energetica e verso un modello di produzione e consumo basato sull’economia circolare, sul riuso, ecc.
Le categorie degli edili di Cgil, Cisl e Uil hanno sperimentato per prime la cosiddetta “bilateralità”, con le Casse Edili e i Comitati paritetici territoriali. Come descrivereste questa prassi consolidata nei rapporti tra i sindacati, le controparti e gli enti terzi? E, soprattutto, che bilancio ne potete trarre, sulla base di un’esperienza ormai ultradecennale?
L’esperienza è addirittura ultracentenaria, considerando che la prima Cassa Edile a Milano è nata nel 1919. Come accennavo prima, mai come oggi la bilateralità di derivazione contrattuale in edilizia, con la mutualizzazione delle prestazioni, con il presidio di legalità che esercita (la Cassa Edile concorre all’emanazione del Durc/Dol e della Congruità), con la centralità che dà alla formazione (anche su green building, professionalizzazione, ecc.), corretto inquadramento (dopo soprattutto il recente rinnovo dei CCNL quest’anno) e alla salute e sicurezza, si propone oggi come modello che può funzionare anche in altri settori. Sempre di più discontinuità, lavoro in piccole e medie imprese, esigenza di aggiornamento costante, mobilità, ricomposizione delle tutele anche sul mercato del lavoro, saranno (anzi già sono), anche per questioni tecnologiche, caratteristiche diffuse in molti comparti.
E’ iniziato il Congresso della principale organizzazione dei lavoratori e dei pensionati italiani, che cade in un momento di acutissima crisi economica e anche politico-istituzionale, se pensiamo a quanto sia stata accidentata questa legislatura. Che cosa “chiedete” al Congresso? Quale segnale dovrebbe dare agli iscritti, ai simpatizzanti, al mondo del lavoro? E quale strada dovrebbe intraprendere la Cgil per poterli rappresentare al meglio?
Sarà un congresso particolare, credo. Da una parte molte sono le variabili economiche, tecnologiche, geopolitiche che a livello internazionale, europeo e quindi italiano possono entrare in campo. E quindi occorrerà tenere in “aggiornamento” permanente la nostra elaborazione “tattica”. Dall’altra però, proprio per queste incertezze, dobbiamo essere chiari e netti sulla “strategia”, cioè su un pensiero lungo che collochi la nostra azione dentro un quadro di coerenza e una visione di insieme.
La visione di insieme si può rappresentare intorno ad un obiettivo: per sopravvivere serve più giustizia ambientale e sociale. Per affermare tale maggiore giustizia, la via della democrazia e della partecipazione è l’unica per noi coerente e necessaria. Gli strumenti per realizzare la prima (giustizia) e alimentare la seconda (democrazia e partecipazione) sono una nuova stagione di contrattazione collettiva e di vertenzialità per: 1) avere politiche industriali (con un ruolo del pubblico maggiore) in grado di governare e accompagnare transizione tecnologica, transizione digitale e transizione demografica, senza lasciare indietro nessuno, anzi creando anche più occupazione; 2) un mondo del lavoro con meno precarietà, per investire sulla conoscenza dei lavoratori, i saperi e la voglia di partecipare e di contribuire anche ad un nuovo modello di produzione e di impresa; 3) un sistema pubblico di protezione e promozione perché dobbiamo ricostituire un “ceto medio” che sta sparendo e non possiamo al contempo condannare alla paura, alla rabbia (e quindi alla xenofobia, all’antiscienza, al fascismo) milioni di persone deboli. Da qui la centralità della sanità pubblica, della scuola e università e di un modello di città che, in uno slogan, chiamiamo la città dei 15 minuti. Creando per questa via anche occupazione. Perché o ripartiamo dai bisogni, o creiamo lavoro per un nuovo modello, oppure tra intelligenza artificiale, concentrazione di ricchezza nelle mani di poche, impoverimento del nostro tessuto di piccole e medie aziende, anche avere un lavoro sarà un privilegio. Ovviamente per fare ciò dobbiamo cambiare come Cgil, ma soprattutto dobbiamo avere il coraggio di praticare innovazione, di sperimentare.
Obiettivi ambiziosi che travalicano la “forza” della pur principale confederazione sindacale.
Siamo infatti consapevoli che questa battaglia non la si vince da soli, anche se più forti e grandi. Serve ricostruire un senso comune nella società, servono alleanze, serve unità sindacale (per quanto complicata e difficile), serve ricostruire un campo politico e culturale dove vivano le varie espressioni di una visione democratica e progressista della società. Senza rinunciare all’autonomia del lavoro e del sociale, serve ricostruire anche una cultura politica e forze politiche espressamente alternative nei valori e nei programmi, non subalterne sia alla destra neo-liberista (oggi in crisi dopo il fine della globalizzazione che era considerata bella a prescindere) che delle destre populiste, nazionaliste e xenofobe. Serve, passami la battuta, un po’ di socialismo alternativo alle barbarie in cui siamo immersi.
A cura della redazione di ‘Progetto Lavoro’
Pubblicato il 16 Giugno 2022