Salari al minimo legale: una norma è ormai ineludibile
Per troppo tempo la Cgil è stata contraria al “salario minimo legale”, per difendere un modello contrattuale basato sul CCNL e sulla contrattazione integrativa, che assegnano al sindacato il ruolo di “autorità salariale” di fatto è non di diritto. Senza accorgersi o facendo finta di non accorgersi che vari passaggi (rinuncia alla scala mobile, accordi di moderazione salariale, moratorie, vacanze contrattuali, riassetti dei settori merceologici e catena degli appalti e subappalti, contratti separati, indebolimento dei diritti e delle tutele giuridiche), hanno reso insufficiente, ed anche sperequato, il modello contrattuale italiano, regalandoci il primato dei salari più bassi d’Europa ed addirittura unici fra tutti i paesi industrializzati, con una dinamica salariale negativa.
Inoltre è ormai statisticamente appurato che i CCNL coprono circa l’80% del perimetro del lavoro dipendente: sembrerebbe una percentuale alta, di tutto rispetto. Ma, letta al contrario, significa il 20% circa di non copertura contrattuale, che non solo è molto significativo in sé, trattandosi di circa 4 milioni di lavoratori, ma rappresenta una zavorra tale da condizionare fortemente ed a ribasso la qualità della contrattazione. Molti, qualcuno forse in buona fede (ma il grosso in malafede), hanno sostenuto che un indebolimento del CCNL avrebbe rafforzato ed esteso la contrattazione aziendale ed integrativa, ma non è stato così; visto che, dati alla mano, la contrattazione integrativa copre appena il 20% delle aziende e in tutta evidenza si tratta di grandi aziende dei settori più ricchi e quindi con un effetto sperequato che aumenta le diseguaglianze salariali all’interno dello stesso mondo del lavoro dipendente.
Occorre fare un’operazione verità anche sui CCNL: oggi il CNEL ne censisce oltre 1000, 2 terzi di questi sono addirittura contratti pirata o, comunque, firmati da organizzazioni sindacali fantasma o con sconosciuti requisiti di consistenza e rappresentanza. Quello dei contratti al ribasso, firmati dai sindacati gialli, non è un fenomeno nuovo, è sempre esistito, ma si trattava di situazioni di piccolo cabotaggio, peraltro confutabili dalla magistratura del lavoro che applicava il principio delle condizioni di miglior favore. Oggi invece sono proliferati in modo abnorme e purtroppo riconosciuti è legalizzati da una norma di legge (art. 8 della legge finanziaria del 2011) voluta dall’allora ministro del lavoro berlusconiano Sacconi; norma che ha scompaginato il modello contrattuale italiano, storicamente basato su due livelli, quello nazionale e quello aziendale integrativo, e che ha invertito il principio delle condizioni di miglior favore, consentendo di derogare al ribasso rispetto ai trattamenti del CCNL. Questa norma è ancora in vigore e stranamente non ne è stata rivendicata l’abrogazione neanche dalla Cgil.
Infine, parliamoci chiaro, anche se venisse debellato il fenomeno dei contratti pirata e venisse varata, finalmente, una legge necessaria ed urgente sulla rappresentanza certificata delle OO. SS. ed il riconoscimento erga omnes dei CCNL firmati dai sindacati più rappresentativi, scomparirebbero circa 700 contratti, ma ne rimarrebbero in vigore circa 300, un numero comunque enorme. Mentre i contratti nazionali coprono settori con poche migliaia di persone, con perimetri contrattuali incerti e sovrapposizioni, con posti di lavoro al cui interno si applicano 2-3-4 contratti diversi, con trattamenti anche economici che vanno dai 6 euro all’ora a dieci volte tanto, determinando diseguaglianze ed una vera e propria giungla retributiva all’interno del mondo del lavoro dipendente, ma addirittura all’interno di uno stesso posto di lavoro.
Sono anni che nei documenti si accenna alla necessità di ridurre il numero dei contratti, ma nella pratica aumentano. Nel corso degli anni, con questo intento di riduzione, si sono accorpate categorie (tessili e chimici nella Filctem, lavoratori di poste, telefoni e cartai nella Slc, braccianti e alimentaristi nella Flai, tutte le categorie del pubblico impiego nella Fp), ma purtroppo i contratti non sono stati accorpati.
Un sistema contrattuale così non è in grado di tutelare i salari, come è stato abbondantemente dimostrato dai fatti, né può essere compatibile con una norma ormai ineludibile di salario minimo legale, come previsto in tutti i più grandi ed avanzati Paesi europei.
Occorrerebbe una rivoluzione copernicana: bisognerebbe scendere da 300 a 10 CCNL, abbandonare la denominazione merceologica, perché ormai i vecchi settori tradizionali sono sempre meno identificabili ed identitari, per costruire grandi macroaree professionali (produzioni immateriali, produzioni materiali, servizi individuali, servizi collettivi, solo a titolo d’esempio) per tendere verso due obiettivi sempre declamati e mai raggiunti di unificazione del mondo del lavoro e dei lavori: per riconquistare la centralità del lavoro nella società, così come è scritto nella Costituzione.
Pietro Soldini
Pubblicato il 27 Settembre 2022