A scuola di resistenza

Il processo strisciante di militarizzazione della pubblica istruzione è un drammatico dato di fatto

Antonio Mazzeo, insegnante di educazione fisica, ha denunciato su Radio Onda d’Urto che un atleta di 18 anni che aspiri a fare atletica leggera in modo agonistico non ha ormai altra scelta che entrare nelle forze armate. Garantendo uno stipendio e sponsorizzando innumerevoli eventi sportivi, le forze armate danno un’immagine ludica e sana di sé. In questo caso le armi passano in secondo piano, anche se con risultati a volte grotteschi, e non mancano messaggi subliminali: nella gara di marcia ai recenti europei di atletica gli atleti hanno dovuto percorrere 20 volte i pavimenti del Foro Italico, sotto i pregevoli mosaici storici di epoca fascista che raffigurano scene sportive e mitologiche, ma anche scritte inneggianti al Grande Dittatore, per dirla con Charlie Chaplin, che scorrevano sullo sfondo mentre le telecamere seguivano l’incedere dei marciatori sugli schermi di tutta Europa.

Ma almeno in questo caso, le armi rimangono fuori dai processi educativi. Non altrettanto si è potuto dire con la partecipazione di masse di scolaresche degli istituti materni comunali di Roma al Villaggio Difesa, una sorta di Luna Park popolato da divise e stellette istituito al Circo Massimo il 4 novembre, in occasione della giornata delle forze armate. Nei numerosi stand si offriva ai piccoli la possibilità di maneggiare vere e proprie armi da guerra, oppure di cimentarsi a giochi virtuali di tiri al bersaglio nemico. Perché giocando si impara, come si dice, anche se a poche centinaia di chilometri da guerre sanguinose.

Tutto ciò ha l’obiettivo, a nostro parere, di diffondere una cultura militarista che abitui fin dalla più tenera età alla guerra, all’ipotesi stessa di una guerra, in quanto possibile, e dunque alle spese militari attraverso il volto rassicurante di questi “formatori”. Se la guerra, tuttavia, resta un’ipotesi inquietante ma non a portata di mano e forse lontana nei tempi e negli spazi, l’esercizio e l’uso della violenza come strumento repressione è materia di tutti i giorni.

Ed è così che gli studenti dell’ultima classe del Liceo Fermi di Genova si sono ritrovati ad Expo Training a Milano, nell’ambito di una visita di istruzione volta a completare i crediti dell’alternanza scuola lavoro. Si aspettavano di trovare stand di università o istituti di formazione, ma l’impressione è che a prevalere nettamente fossero quelli delle forze dell’ordine.  Fin qui poco male; ci sarebbero molti argomenti su cui queste potrebbero parlare orgogliosamente di sé. La lotta alla mafia e al terrorismo, impronte digitali e investigazioni, il codice rosso e la difesa delle donne in pericolo.

Invece a un certo punto si ritrovano ad assistere ad una dimostrazione pratica di violenza, sdoganata come se nulla fosse. Ne abbiamo parlato con Annalisa Valiakis, insegnante e madre di una delle studentesse partecipanti, che ha deciso di denunciare il fatto.

Annalisa, cos’è successo ad Expo Training?

Avrebbe dovuto essere una giornata di formazione e di orientamento professionale, anche finalizzata all’orientamento post diploma. Le forze dell’ordine, con i loro stand, erano presenti in forze. A un certo punto sono attratti da una serie di colpi forti e sordi, e vedono un agente che dava la dimostrazione dell’uso efficace di un manganello su un manichino rosso. La performance formativa della Polizia di Stato non ha mancato di istruirli sull’uso delle manette – con battutine allusive di un loro possibile impiego per altri scopi – e del taser, definito addirittura “divertente” e “gratificante”.

I ragazzi come hanno reagito?

Qualcuno ha detto chiaramente che era una istigazione alla violenza, altri hanno ironizzato sul colore rosso del manichino, sostenendo che era il pestaggio di un comunista. E c’è chi ha concluso che era un allentamento al pestaggio di comunisti. Dopo che gli agenti hanno invitato gli studenti a provare essi stessi, non è mancata la visita alla ricostruzione di una cella nello stand della Polizia Penitenziaria. In tutto ciò prevale la cultura e l’immagine della violenza e della repressione, come se le cose più notevoli che fa la polizia, da mostrare a studenti, fossero menare e sbattere dentro. Io sono genovese, e quando la sera mia figlia mi ha mostrato le riprese fatte con il cellulare mi è venuto un brivido. Mi è venuto in mente il G8.

Ed è a quel punto che hai deciso di denunciare?

Esatto. In un primo momento, il dirigente scolastico a cui ho chiesto l’incontro si è mostrato evasivo. Tendeva a minimizzare, diceva che la visita ha avuto presso gli studenti un riscontro molto positivo, per poi promettere che avrebbe incontrato la classe e si sarebbe confrontato con loro. Mi sarebbe bastato, ma dal momento che ciò non è avvenuto, ho contattato io stessa alcuni giornalisti, e la cosa è diventata di dominio pubblico, suscitando anche proteste e prese di posizioni politiche.

Fino a qui la testimonianza di una madre e di un’insegnante. Ci spiace tuttavia dovere concludere con il fatto che la classe ha avuto una reazione per lo più negativa alla denuncia. Non tanto perché non fosse stato giusto farla, ma per il timore di essere oggetto di ripercussioni e di future esclusioni da altre iniziative di formazione. Ed è questo l’aspetto più grave di questo inquietante quadretto. E’ la cultura che parte da dimostrazione di manganelli ed Alcatrazland, ma che arriva all’autoinibizione e alla repressione della capacità di critica, che è pur sempre uno dei più straordinari fattori storici di avanzamento della civiltà.

Davide Vasconi

Pubblicato il 26 Novembre 2024