Israele, dall’apartheid al genocidio

Il termine apartheid venne inventato nel 1915 dal primo ministro sudafricano Daniel François Malan per definire la sua introduzione della segregazione razziale e della disparità di diritti della popolazione di origine non europea, deportata nei cosiddetti bantustan e ora viene usato per la segregazione e privazione di diritti nei confronti dei palestinesi in Israele e nei territori occupati. Di tale affinità era ben consapevole lo stesso governo israeliano, unico fra i paesi occidentali ad allearsi col regime razzista sudafricano, accogliendo a Tel Aviv il premier sudafricano John Vorster (con un passato nazista), iniziando una collaborazione militare, inviando istruttori e fornendo know-how allo sviluppo del programma nucleare del Sudafrica (unità Chalet con missili nucleari Jerico), che venne abbandonato nel 1991, dopo la liberazione di Nelson Mandela, che aveva dichiarato che “la discriminazione razziale in Israele è vita quotidiana per la maggioranza dei palestinesi.

L’apartheid è un crimine contro l’umanità. Israele ha privato milioni di palestinesi della loro libertà e delle loro proprietà, perpetua un sistema di discriminazione razziale e di disuguaglianze, ha incarcerato e torturato sistematicamente migliaia di palestinesi, in violazione del diritto internazionale, ha scatenato una guerra contro la popolazione civile, in particolare nei confronti dei bambini. Sappiamo troppo bene che la nostra libertà non è completa senza la liberazione dei palestinesi”. Il presidente USA Carter ha denunciato l’esistenza dell’apartheid in Palestina. Il “Tribunale Russell”, ha dichiarato che “Israele sottopone il popolo della Palestina a un regime istituzionalizzato di dominazione con pratiche segregazioniste e razziste che viene considerato come apartheid in base al diritto internazionale. A causa della legge israeliana anche i cittadini palestinesi di Israele, pur godendo del diritto di voto, non fanno parte della nazione ebraica e sono oggetto di una discriminazione sistematica su una vasta gamma di diritti dell’uomo riconosciuti”. La ICCPR (Convenzione internazionale per i diritti civili e politici) dell’ONU “considera la discriminazione e il trasferimento forzato di popolazione dei territori occupati un ‘crimine di guerra”. Secondo il rapporto di Human Rights Watch “i Palestinesi sono vittime di una sistematica discriminazione in ragione della loro origine etnica, per cui sono privati di elettricità, acqua, scuole e strade, mentre i coloni ebrei del loro vicinato godono di tutti questi servizi pubblici”. Un rapporto riservato dell’UE, pubblicato da El Pais, sostiene che in Cisgiordania i palestinesi sono “privati dei loro diritti civili fondamentali” con “numerose restrizioni della loro libertà di movimento”, con una giustizia segregata: “i coloni ebrei sono sottoposti alle leggi israeliane e quasi sempre assolti, mentre ai palestinesi viene applicata la legge marziale e sono sottoposti ai tribunali militari israeliani (con una percentuale di condanne del 99,74%), e a detenzioni amministrative senza imputazioni e a tempo indefinito (compresi i minori), spostando i prigionieri in territorio israeliano (violando il diritto internazionale), senza avvisare le famiglie che comunque non possono accedervi”. Le riunioni di più di 10 persone e per visite a partenti e amici devono avere il permesso del comandante militare che non lo concede, e in caso di violazione sono previsti fino a 10 anni di carcere; la ricongiunzione familiare è vietata, le licenze edilizie nell’Area C sono state concesse solo all’1,5% dei richiedenti palestinesi e oltre 12.000 loro costruzioni sono state demolite dai militari; la legge israeliana proibisce ai palestinesi di acquistare le terre di ebrei e i permessi per raggiungere i propri campi oltre il muro sono spesso negati.

Ma non è tutto. Gli studiosi, a partire dagli australiani Patrick Wolfe e Lorenzo Veracini, con l’americano Gabriel Piterberg e l’italiana Diana Carminati, hanno individuato due diverse tipologie di colonialismo, quello di sfruttamento (come quello inglese, francese, sudafricano), caratterizzato dall’apartheid, e quello d’insediamento o di sostituzione (“settler colonialism”, colonialismo dei coloni), caratterizzato dall’accaparramento dei territori (“land grabbing”) e dall’eliminazione dei nativi, con pulizie etniche e genocidi, in cui “la logica dell’eliminazione prevale su quella dello sfruttamento. Non è la stessa cosa dire ‘tu devi lavorare per me’ o ‘tu devi andartene’, dice Veracini. È accaduto agli indigeni delle Americhe, delle Hawaii, dell’Oceania e di molti altri luoghi (Ebrei, Armeni, Herero e Nama, Rom e Sinti, Cinesi indonesiani, Yazidi, Rohingya, Yanomani e i popoli di Cambogia, Guatemala, Balcani, Ruanda, Darfur, Amazzonia, India centrale, Sudest Asiatico), che ha portato a volte all’estinzione delle popolazioni, come i Fuegini e Tasmaniani. Spesso l’apartheid è un passaggio transitorio verso l’eliminazione.

“Il colonialismo d’insediamento è il paradigma centrale per capire la ‘questione palestinese’ e per riposizionare il movimento palestinese all’interno di una storia universale di decolonizzazione”, secondo la Conferenza internazionale “Past is Present: Settler Colonialism in Palestine”, del marzo 2011 alla SOAS (School of Oriental and African Studies) di Londra sul tema del progetto sionista in Palestina, che ha analizzato “le politiche sioni-ste violente di spoliazione/espropriazione dei nativi e il problema centrale di annessione illegale della maggior quantità di terra possibile in Cisgiordania, chiudendo i palestinesi in bantustan o cacciandoli con sistematici transfer” (deportazioni). “Per giustificare la loro espropriazione, espulsione ed eliminazione i nativi vengono “razzializzati” e “disumanizzati”, stigmatizzati come non umani, per procedere alla loro eliminazione”. Nei media, fra gli intellettuali e nel mondo politico viene denunciata l’apartheid, considerando la questione palestinese come un caso “eccezionale”, ma così “si elude il problema del progetto di colonialismo d’insediamento cioè l annessione illegale di territori, considerati ‘vergini, desolati, deserti’, perché abitati da indigeni, e perciò “nullius”, con l’espulsione graduale, da parte dei coloni, della popolazione nativa, cancellando la sua identità indigena e i suoi diritti sulla terra,  allo scopo di farla progressivamente sparire e sostituirsi ad essa diventando nativi, e il suo carattere è divenuto ordinario e struttura-le con la globalizzazione neoliberista”. “Se i coloni diventano in seguito nativi, il colonialismo d’insediamento estingue sé stesso e giustifica il suo operato con l’aspettativa di una sua futura scomparsa” (Veracini). Anche Marx pensava che la società “settler” puntasse non alla produzione ma a diventare essa stessa nativa. Ma nelle fasi di passaggio “la logica dell’eliminazione si accompagna spesso a quella dello sfruttamento, con possibilità binarie di dominio e oppressione” e in Palestina/Israele “non si può ancora oggi parlare di un colonialismo d’insediamento compiuto … perché i palestinesi non sono ancora stati cacciati tutti”, ma questo è il progetto sionista fin dalle origini, “fondare lo Stato degli ebrei ed ‘eliminare’ i palestinesi”.

La causa prima di queste migrazioni sta nelle politiche antisemite e nei pogrom europei, ma per Claude Klein e Hannah Arendt (1986), anche nella migrazione degli ebrei orientali (ostjüden) estremamente poveri e in fuga dalle persecuzioni, considerati dalla ricca borghesia finanziaria ebrea occidentale come inferiori, “cenciosi e sudici, ripugnanti, spiritualmente e moralmente degenerati” e quindi da allontanare, per cui vedevano nel sionismo il modo per dare loro una sistemazione fuori dall’Europa. “Il sionismo apparirebbe meno glorioso se si considerasse che sia stato inventato … per regolare i rapporti fra gli ebrei occidentali e gli ebrei orientali” (Klein). Si confrontavano tre posizioni, l’“autonomismo”, sostenuto dai rabbinati nazionali, che chiedeva l’autonomia politica degli ebrei in ciascuno stato dove erano insediati, e il “territorialismo”, che intendeva formare un “focolare” ebraico senza preferenze sul luogo, che si opposero duramente al “sionismo” vincente che intendeva stabilire gli ebrei in Palestina, ma era anch’esso diviso in due correnti: quella favorevole ad una convivenza pacifica con i palestinesi, sostenuta da Einstein, Arendt, Freud e moltissimi altri intellettuali, e quella, da loro fortemente osteggiata ma poi vincente, di Theodor Herzl, che sosteneva la pulizia etnica per la costituzione d’uno stato esclusivamente ebraico in Palestina, con la cacciata dei palestinesi. La  loro narrazione ufficiale era imperniata, e lo è tuttora, sul mito religioso del ritorno degli ebrei alla terra promessa da Dio ad Abramo, portata avanti anche dai socialisti atei kibbutzim, i più fanatici sostenitori della pulizia etnica e di “una terra senza popolo per un popolo senza terra” (perché anche Golda Meir riteneva i palestinesi degli “squatters”, occupanti abusivi d’una terra di proprietà divina degli ebrei), mentre il genetista ebreo Eran Elhaik, della John Hopkins University, ha constatato che i palestinesi e i Cohen (la casta sacerdotale ebraica), sono i discendenti degli antichi ebrei, mentre gli ebrei della “diaspora”, attualmente israeliani, discendono da “conversi” indoeuropei (45-55%), ci-prioti e caucasici (Armeni, Georgiani e Azari). La “catastrofe palestinese” non è iniziata con la Nakba, che ne fu solo una brusca accelerazione, ma, fin dalle sue origini, dal progetto sionista strutturale di “settler colonialism”, fondato uno stato ebraico teocratico esclusivo per i soli ebrei e sulla proprietà della terra con l’esclusione dei lavoratori palestinesi e l’espulsione dei nativi. Già nel 1882 il Barone Edmond Rothschild aveva iniziato il suo progetto coloniale con l’acquisto di migliaia di ettari di terra, che non dovevano mai più essere rivendute ai palestinesi, e da cui venne esclusa la manodopera palestinesi che perse i propri mezzi di sostentamento, con la progressiva espulsione della popolazione nativa. Seguì nel 1901 la creazione dello Jewish National Fund per acquistare terre (espropriate ai nativi anche in modo forzato), destinate alle colonie cooperative (kibbutz e moshav) degli Operai di Sion del sindacato sionista laburista Histadrut, come avamposti fortificati combattenti antipalestinesi (con strutture a torre e palizzata, come nel Far West) che ebbero anche il sostegno del Revisionismo sionista di Vladimir Jabotinsky (detto Vladimir Hitler per le sue simpatie politiche), che nel  libro “Il muro di ferro” (1925), sosteneva l’eliminazione violenta dei palestinesi. Nel 1897 Herzl, nella consapevolezza che il suo progetto di insediamento coloniale avrebbe incontrato forti resistenze, aveva elaborato una strategia  progressiva che aveva innanzitutto bisogno del sostegno dei disegni imperialisti occidentali, e aveva offerto i suoi servizi al colonialismo britannico, sostenendo che “per l’ Europa noi formeremmo un elemento di muro contro l’Asia come l’avamposto della civilizzazione contro la barbarie” e tuttora Israele costituisce un avamposto essenziale della strategia americana in Medio Oriente. Herzl era già stato chiaro sulla necessità dell’espulsione dei palestinesi, ribadita anche da Ben Gurion (“Sono a favore di un trasferimento forzato, non ci vedo nessun problema … non potrà mai esserci pace tra israeliani e arabi … questo è un conflitto nazionale e non esiste un popolo di-sposto a lasciare il proprio paese per un altro”), ma le parole più chiare emergono dal diario del 1940 di Joseph Weitz, capo del Dipartimento della colonizzazione della Agen-zia ebraica: “Fra di noi deve essere chiaro che non c’è posto per entrambi i popoli in questo piccolo paese … l’unica soluzione è la Palestina, almeno quella a ovest del Giordano, senza gli arabi … e non c’è altro modo se non di trasferire gli arabi nei paesi vicini, trasferirli tutti, non un villaggio, non una tribù dovrebbe rimanere”.

Il colonialismo d’insediamento in Palestina, afferma Shafir, è frutto di una progressiva lenta spoliazione, separazione, esclusione, dal 1904 sino al 1947, sfociata poi nella pulizia etnica, con le atrocità della la Nakba del 1948-49, che accelerò in modo molto radica-le tale progetto di pulizia etnica, operata dai gruppi terroristici ebraici (Haganah, Irgun e Lehi) che con svariate stragi (Deir Yassin, Tentura, Sa’sa’, Lidda, Giaffa e decine di altre) e con la distruzione di 540 centri abitati palestinesi, spinsero alla fuga 800.000 palestinesi (il 90% degli abitanti), svuotando il suo territorio.

Tale progetto di conquista per tappe del territorio dell’intera Palestina con l’espulsione dei suoi abitanti è continuato fino ai nostri giorni, creando dei “casus belli” per giustificarne l’azione davanti all’opinione pubblica mondiale. Il “secondo round” è stato realizzato da Moshe Dayan nel 1967, con la NASBA di 400.000 esuli. Ha ammassato truppe alla frontiera siriana lasciando maturare la risposta egiziana, per poi distruggere in un solo giorno tutta la sua aviazione, conquistando in 6 giorni un territorio quattro volte maggiore (Cisgiordania, Gaza, Golan e, provvisoriamente, il Sinai). Poi è iniziata la frammentazione del territorio palestinese in centinaia di “coriandoli di bantustan”, separati fra loro dagli insediamenti di un milione di coloni ebrei (giudicati un “crimini contro l’umanità” dalle risoluzioni dell’ONU), dove è vietato l’accesso dei palestinesi: il territorio controllato dall’ANP è solo il 18% della Cisgiordania ed è sottoposto a costanti atroci attacchi omicidi dei coloni, che godono del sostegno del governo e di una completa immunità.

Il conflitto odierno rappresenta la “soluzione finale”, l’ultima tappa del progetto sionista. Netanyahu aveva cercato inutilmente di convincere l’Egitto ad accettare il trasferimento dei gazaui nel Sinai, ed aveva già progettato l’utilizzo della striscia di Gaza (definita dall’ONU “una prigione a cielo aperto”), dopo l’espulsione dei palestinesi, per insedia-menti turistici israeliani e la costruzione d’un un canale navigabile, il Ben Gurion, da Ga-za ad Eilat in alternativa al canale di Suez. Gli israeliani avevano anche effettuato 4 invasioni della Striscia di Gaza, con 664 morti, in gran parte bambini, ed invaso illegalmente la Moschea di al-Aqsa (uno dei tre luoghi sacri islamici). Era al corrente già da un anno dei preparativi di Hamas ed era stato informato negli ultimi giorni anche dai servizi segreti egiziani dell’imminenza dell’attacco, ma anziché rafforzare le difese, aveva spostato altrove due delle tre brigate dell’esercito israeliano, allo scopo di consentire un attacco di Hamas da utilizzare come “casus belli” per poter espellere la popolazione palestinese da Gaza. La propaganda mediatica ha montato il caso dei bambini decapitati, poi smentita da Haaretz, mentre il 60% dei 1.400 i morti israeliani risultano carbonizzati dal “fuoco amico” delle bombe al fosforo, vietate dall’ONU, e a disposizione solo degli elicotteri israeliani, a cui era stato ordinato di scaricare le bombe anche se, hanno detto i piloti, non potevano distinguere fra israeliani e nemici, per la Direttiva Annibale del 1986, che impone di fermare il rapimento di ostaggi “con ogni mezzo, anche a costo di colpire e danneggia-re le nostre stesse forze”. Ciò ha consentito a Netanyahu di portare avanti non solo un at-tacco ad Hamas, ma  il suo progetto di espulsione dei gazaui, ed ormai ci si avvicina ai 50.000 morti, in gran parte bambini e donne, per  bombardamenti,  mancanza di accesso all’acqua potabile, al cibo, all’assistenza sanitaria e ai servizi igienici, mentre sono stati bombardati i centri di aggregazione (ospedali, chiese, moschee, sedi dell’HUNRWA) e persino le ambulanze e la popolazione in attesa della distribuzione di aiuti e le ONLUS che le distribuivano e buona parte degli edifici è stata rasa al suolo per impedire il ritorno dei profughi che non sanno più dove andare. Ha dato il via libera agli attacchi omicidi dei coloni in Cisgiordania. Questa politica di Netanyahu ha suscitato forti dissensi anche nel mondo ebraico: dell’esercito israeliano e di alcuni ministri, partiti e società civile, dei parenti degli ostaggi e, all’estero, ha trovato l’opposizione degli ebrei americani, mentre i rabbini hanno guidato grandi manifestazioni contro gli attacchi israeliani a Londra, New York ed altre città, e gli studenti ebrei hanno partecipato alle manifestazioni degli studenti in gran parte del mondo. Gli Stati Uniti hanno ampiamente disapprovato tale politica ma non sono riusciti a distaccarsi dal loro “avamposto” in Medio Oriente.

Al centro dell’ossessione israeliana per i trasferimenti forzati c’è il rifiuto del diritto dei palestinesi di vivere sulla loro terra, che è in contraddizione col mito su cui Israele è stato costruito, e perché nella retorica di Israele, allontanare i Palestinesi dalla loro terra equi-vale a cancellare ogni traccia del loro diritto al ritorno. Levi Eshkol dichiarò “se dipendesse da noi, manderemmo tutti gli Arabi in Brasile”, ma poi venne concluso un accordo per il loro trasferimento forzato nel Paraguay, allora del nazista Strössner, ma fallì per un attacco palestinese all’ambasciata israeliana in quel paese. La proposta più recente è di costruire in mare un’isola artificiale sotto sovranità israeliana, dove concentrare tutti i palestinesi: un’altra prigione, ma in mare aperto. 

Veracini sostiene che qualsiasi soluzione del conflitto ormai ultrasecolare passa necessariamente dalla “decolonizzazione”, anche dal loro interno, dei soggetti “settler”, che dovrebbero diventare parte, come soggetti agenti, della loro stessa decolonizzazione, come è avvenuto in Sudafrica. La premessa indispensabile per qualsiasi accordo è che Israele rinunci alle sue leggi sioniste, trasformando l’attuale teocrazia in una democrazia, accettando l’uguaglianza e la parità dei diritti, anche giudiziari, e la libertà di movimento di tutti i cittadini, ma si tratta di un obiettivo molto lontano. Occorre abrogare le leggi sioniste (Israele stato degli ebrei, Law of Absentees’ Property, Legge del ritorno). Occorre superare il mito diffuso in Occidente della democrazia di Israele, perché uno stato dell’apartheid e dei settler non può essere una democrazia, che non consiste in una gin-nastica elettorale della sola parte dominante del paese, ma esige un’eguaglianza di diritti, oggi inesistente. Va considerato che anche Hamas aveva già accettato un accordo, tornando ai confini pre-68, ma Israele l’ha rifiutato, perché tuttora rivendica l’intero territorio palestinese, rifiutando la politica dei “due stati”, universalmente accettata da ONU, USA ed Europa. In realtà non si vede come sia possibile trasformare la Cisgiordania e Gaza in un vero stato, dato che oggi è un insieme di frammenti segregati tra loro, ed effettuare il connesso indispensabile trasferimento di oltre un milione di coloni che opporrebbero una resistenza armata feroce. Forse l’unica soluzione possibile sarebbe quella, sia pure molto remota nel tempo, di realizzare uno stato federale laico, con piena libertà di movimento e parità dei diritti indipendentemente dalla religione, costituito da cantoni, come quelli svizzeri, ciascuno con il proprio autogoverno fondato sulla realtà demografica locale.

Giancarlo Saccoman

Pubblicato il 6 Agosto 2024