La scatola nera di salari, profitti e Stato
La discussione su salari (sempre troppo bassi rispetto alla media europea), profitti (ormai piegati solo sulla differenza tra ricavi e costi), Stato (via via sempre più residuale e ormai considerato un bancomat per “risolvere” i fallimenti del mercato), ha preso da troppo tempo una piega che potrebbe far precipitare l’intera società all’interno dei soli diritti giudicabili; un arretramento rispetto ai diritti fruibili e non giudicabili (Stato Sociale). Come è potuto accadere uno slittamento (arretramento) così importante?
Tutti i soggetti (istituzioni dell’economia politica), financo con il concorso di alcuni economisti, rimuovono le relazioni tecniche e sociali che intercorrono tra salario-capitale-Stato e la ripartizione del reddito tra salari-profitti. In altri termini, non possiamo discutere di salario senza considerare il capitale e lo Stato; non possiamo considerare il capitale senza il lavoro e lo Stato; non possiamo considerare lo Stato senza il lavoro e il capitale.
E’ noto che i salari italiani siano caduti negli ultimi 30 anni e che debbano almeno crescere di 5 punti di PIL per allinearsi alla media europea (perché non indicizzarli a questo livello?), ma la distribuzione del reddito deve pur fare i conti con alcune e non banali relazioni economiche. Ho imparato nel tempo che ci sono almeno 3 lati di un triangolo (equilatero) che devono essere considerati: 1) capitale-lavoro; 2) capitale-Stato; 3) lavoro-Stato. Tanto più questo triangolo rimane equilatero, tanto più il sistema economico beneficerà di questo “equilibrio”; un equilibrio che non è mai dato una volta per sempre.
Lo Stato, tra le istituzioni su menzionate, è storicamente “l’istituzione” che regola i mercati e li piega verso l’interesse collettivo. All’interno di uno Stato forte e partecipe dello sviluppo economico, è stata possibile la crescita dei diritti di I generazione (nome e cognome), di II generazione (stato sociale) e di III generazione (diritti civili). Si tratta di diritti che hanno plasmato la democrazia liberale presa sul serio (N. Bobbio). È una Storia che dovrebbe essere patrimonio di tutti, financo di tutti gli uomini e le donne che non hanno mai potuto misurarsi con questi temi. Alcuni diritti evolvono e si consolidano nella Storia e diventano patrimonio collettivo.
A partire dagli anni Ottanta è in corso una sorta di conflitto (guerra) tra salario, capitale e Stato, legittimo se fosse stato esercitato nei limiti del diritto naturale e positivo, ma questa disputa ha uno sconfitto prevalente che ha trascinato l’intera società verso un orizzonte fondato solo sul diritto naturale e giudicabile. Lo Stato è il grande sconfitto, mentre la sua debolezza finanziaria e giuridica ha nei fatti favorito il capitale. La politica ha certamente concorso, ma la questione, purtroppo, non è più solo questa. Non basta denunciare la caduta dei salari: è pavloviana. In realtà è fondamentale comprendere cosa si cela dentro la scatola nera di questa caduta dei salari. Il rischio è quello di rivendicare al soggetto sbagliato la giusta crescita dei salari, con degli effetti ancor più negativi dell’aumento dei salari figli della minore tassazione. Infatti, non dobbiamo mai dimenticare che lo Stato esercita i suoi poteri nella misura in cui tassa tutti i redditi, i quali devono concorrere in misura proporzionale secondo i dettami costituzionali. In altri termini, non dovrebbero esserci soggetti economici che in ragione di un proprio profilo (rango) sociale possono reclamare privilegi particolari, se non quelli di beneficiare dei servizi pubblici.
Sebbene vi sia una strana narrazione sulle imposte, sempre troppo alte per profitti e lavoro, la disponibilità e i benefici dei servizi pubblici in natura sono indiscutibilmente maggiori rispetto a qualsiasi aumento del salario via riduzione dei contributi e/o delle imposte. In realtà, anche le imprese hanno un vantaggio. Infatti, lo Stato fissa un pavimento entro cui la concorrenza dovrebbe muoversi (Teoria dei sentimenti morali di A. Smith).
Qualcosa si è inceppato nella società moderna, almeno in Italia. Sembra che la riduzione delle tasse sia diventata l’unica via per fare politica economica.
Prima si esce da questa narrazione, prima sarà possibile discutere dei problemi reali legati al lavoro e ai relativi salari, profitti e un intervento pubblico degno ed efficace.
Roberto Romano
Pubblicato il 8 Dicembre 2022