“La vida es eterna en cinco minutos”
Il racconto della compagna Rosita, che a 22 anni scappa dal golpe di Pinochet con il marito e due figlie piccole
La sera prima della nostra partenza, la casa di mio padre sembrava in festa, pullulava di gente e la stufa accesa la rendeva familiare e accogliente. Ma l’aria era mesta, la notizia della nostra partenza era sulla bocca di tutto il paese: il golpe aveva colpito anche noi. Arrivarono parenti, amici, vicini di casa, chi per salutarci, chi per solidarietà verso i miei genitori, i più colpiti dalla circostanza. C’era l’hermano Felipe, leale amico e compagno di viaggio di mio papà quando lavoravano nelle faenas in Patagonia, che quando arrivò gli si sedette accanto, gli mise una mano sulla spalla stringendolo con forza ed entrambi scoppiarono in un pianto liberatorio, carico di tristezza e angoscia, ma anche di stima e affetto. Ognuno asciugò le proprie lacrime, poi Felipe – rivolgendosi a me e mio marito – ci disse “per chi è vittima di ingiustizia come Voi, prima o poi arriva una giustizia cosmica che il buon Dio riserva a chi è a posto con la propria coscienza”.
Io non lo so se questo sia accaduto, so soltanto che a distanza di anni resta nitido nella mia memoria il ricordo di quell’uomo sempre così gentile, paterno, sorridente che ha pianto insieme a mio padre la forzatura che il destino ci imponeva: barattare la mia terra a causa del golpe, per una più accogliente che è diventata in seguito il mio paese di adozione, l’Italia.
Partimmo da Achao il giorno dopo di mattino molto presto, anche per accorciare lo strazio dei saluti. Piansi fino al Pasaje, ma c’erano ancora 1200 km per arrivare a Santiago, e con noi le mie figlie, Sara di poco più di due anni, e Pilli, di 8 mesi.
Pilli è nata 14 giorni dopo il golpe, ha vissuto quei giorni terribili attraverso il cordone ombelicale e sono convinta che sia riuscita a percepire attraverso di me la grande angoscia che provavo: dall’11 settembre mio marito veniva infatti fermato quasi ogni giorno dai militari, per essere interrogato sull’attività che, a loro dire, il partito comunista gli aveva affidato. Un italiano, con idee progressiste, ex studente dell’Università Tecnica di Santiago, radicatosi a Chiloé, non poteva che aver ricevuto un “mandato dall’intellighenzia sovietica” per convertire gli isolani al comunismo. Fu uno stillicidio di intimidazioni, dalla perdita del lavoro come insegnante per non aver aderito e firmato l’appoggio verso il governo militare di Pinochet prima, e poi persino quando per sbarcare il lunario fece il pescatore. Che ci faceva un comunista di notte in mezzo al mare da solo? Cosa complottava? Il rischio che fosse caricato su una camionetta per essere trasferito in una delle carceri tristemente note per torture e sparizioni era alto. Fu così che decidemmo di partire, ma non fu certo un’impresa semplice né immediata.
Poco dopo che arrivammo in Italia, il 30 aprile del 1974, fui raggiunta da una lettera dei miei genitori che mi comunicavano la tragica fine dell’hermano Felipe, si era impiccato all’interno del suo capanno al calare della sera. Non mi ha mai abbandonato il pensiero che dietro la sua tristezza, la sua depressione e la sua morte ci fosse in qualche modo la sua resa davanti ai drammatici fatti che colpirono il mio paese in quegli anni.
Nonostante il tempo passato, ancora oggi il Cile suscita in me un sentimento ambivalente molto intenso: quando sono là non ci voglio stare perché il ricordo del golpe non mi abbandona mai. Quando sono in Italia vorrei essere là. E se fino a qualche anno fa ritornavo dal Cile sempre volentieri in questa Italia che ho imparato ad amare, da tempo vivo con un certo disagio anche qui, soprattutto negli ultimi anni dove la solidarietà e l’accoglienza non fanno parte del programma di governo.
Ho sempre dato un particolare significato ad un fatto accaduto durante il viaggio quel mattino: era facile, in quei tempi, incontrare delle piccole mandrie lungo le strade, che allora erano fatte di terra polverosa d’estate e fango durante l’inverno. Una mucca ci attraversò la strada all’improvviso, e ci volle tutta la prontezza del guidatore per evitare di investirla. Nell’impatto il muso dell’animale rimase appoggiato sul cofano per un tempo breve ma indefinito, la vida es eterna en cinco minutos, per dirla con le parole di Vicotr Jara. Il mio stato d’animo era così scosso che mi sembrò di cogliere nello sguardo dell’animale una enorme tristezza, aveva l’occhio lucido e umido e mi sembrò che nelle pupille di quella mucca si fosse trasferito tutto il pianto mio e delle persone care che quel mattino ci avevano salutato. L’amarezza del momento mi ha indotto ad attribuire un significato speciale all’accaduto, come se la mucca avesse sospeso il tempo, fermandolo, perché io stavo lasciando la mia terra. Invocai con tutto il cuore la mia stella guida, di cui mia nonna aveva assicurato l’esistenza, affinché quel momento potesse essere di buon augurio! Abbiamo proseguito il nostro viaggio, e oggi posso dire che, se un significato cosmico c’era in quel piccolo incidente, è stato colto dalla mia stella, che mi ha portato in un paese accogliente in quei tempi, solidale con chi arrivava scappando dai feroci regimi fascisti che dominavano l’America Latina di quegli anni.
A ventidue anni il mio destino mi aveva presa per la collottola e sollevandomi a due metri da terra, mi aveva fatto l’elenco delle difficoltà, dei dolori e delle privazioni che mi attendevano. Fino a quel momento non avrei potuto immaginare la mia vita lontano da tutto ciò che mi dava sicurezza: i miei genitori, la mia casa, la mia terra, il mare e l’aria che respiravo.
Rosita Guajardo Uribe
Pubblicato il 19 Settembre 2023