Lampedusa: la chiamano ‘emergenza’, non vogliono risolverla
Provando ad analizzare i fatti di Lampedusa, emergono con grande chiarezza il disastro ed il fallimento di questo governo, la impraticabilità totale delle sue proposte (propagandistiche, buone soltanto per rubare agli elettori un consenso elettorale, per poi tradire tutte le aspettative) ma anche il fallimento degli esecutivi precedenti, che non hanno cavalcato elettoralmente le paure ed i bassi istinti populisti, ma hanno cercato di esorcizzarle con politiche deboli, ammiccanti e sostanzialmente omogenee ad una visione di contrasto, criminalizzazione, repressione e contenimento dell’immigrazione e del sistema di accoglienza.
Di fronte alle immagini di Lampedusa, di fronte alle chiacchiere che, ancora una volta, affollano giornali e TV, sale un sentimento di sconforto e disperazione.
Meloni e Salvini avrebbero fallito là dove Minniti aveva raggiunto risultati positivi: invece no, tale interpretazione è falsa e fuorviante, perché si notano una continuità ed un’unidirezionalità della filosofia e delle scelte concrete, normative e comportamentali tra gli uni e gli altri.
E sconforta anche la disinvoltura con la quale gli uni e gli altri confermano sostanzialmente, seppur con linguaggio e sfumature diverse, le stesse scelte e proposte. Lo sconforto è ulteriormente aggravato dalla consapevolezza del fatto che occorrerebbe fare il contrario di ciò che si è fatto fino ad oggi, e che questo è realisticamente impossibile che avvenga.
La prima considerazione da esplicitare rispetto all’emergenza-Lampedusa è che da quando è stato costruito il centro di accoglienza, nella Contrada Imbriacola, sono passati 30 anni ed è rimasto sempre lo stesso, con le baracchette che possono ospitare non più di 400 persone. Il porto è rimasto lo stesso, l’aeroporto anche e sull’Isola ancora oggi non c’è un ospedale, né una struttura attrezzata della Protezione civile. Sarebbe stato necessario investire su infrastrutture di qualità per affrontare meglio il fenomeno sia dal punto di vista dei migranti che arrivano, sia dal punto di vista degli abitanti di Lampedusa: invece non si è fatto, pensando che l’inadeguatezza strutturale fosse un buon auspicio per arginare il fenomeno o impedirlo. Addirittura nel 2010-11, il ministro Maroni, dopo la stretta dei suoi decreti sicurezza, in un momento di fermo degli sbarchi, pretese di chiudere il Centro, volendo enfatizzare l’efficacia delle sue politiche di contrasto all’immigrazione, per poi dichiarare la fine degli sbarchi dal Mediterraneo, salvo poi doverlo riaprire dopo qualche mese per l’ennesima emergenza.
La stessa proposta di allungare a 18 mesi la permanenza nei centri di detenzione è un film già visto: è stata praticata anch’essa al tempo del ministro Maroni, ed è stata in vigore per circa 2-3 anni. Basterebbe andare a vedere cosa c’è scritto nelle conclusioni della commissione d’inchiesta parlamentare sui CIE (Centri d’identificazione ed Espulsione), come si chiamavano allora, e sulla durata della detenzione fino a 18 mesi, diminuirono le espulsioni ed aumentarono vertiginosamente i costi economici e di impatto socio-ambientale di questi centri, al punto che la commissione suggerì al Parlamento di chiuderli.
La cosa buffa è che si sostiene l’argomento che il limite temporale dei 18 mesi è previsto dalla Direttiva Europea sui rimpatri, ma non è vero. Perché la Direttiva recita che la permanenza non può essere superiore ai sei mesi, e che la eventuale proroga fino ad un massimo di 18 mesi è possibile soltanto in casi eccezionali e ben definiti, non certo per tutti coloro che vengono “ospitati” nei centri, ma soltanto per una casistica molto precisa, del tutto eccezionale che va verificata individualmente, caso per caso. E tale fattispecie non ha niente a che vedere con le persone che arrivano con i barconi e con i barchini.
Altrettanto vale per l’altra proposta avanzata dal governo, a proposito della richiesta di una fidejussione di poco meno di 5.000 euro per evitare l’internamento: una oscenità mostruosa, eppure anche in questo caso il governo, con incredibile sfrontatezza, sostiene che tale misura sia contemplata dalla Direttiva “Rimpatri”. Eppure non è così, perché nella Direttiva questa ipotesi è prevista in casi particolari, nelle more di un rimpatrio volontario, nei casi in cui l’immigrato sia stato identificato e sia stata accertata la nazionalità di origine e qualora ci sia bisogno di tempi più lunghi per il rimpatrio. Va vista dunque come una misura di tutela, non può essere utilizzata come ricatto o vessazione; al contrario, è lo strumento per poter prolungare la presenza del migrante, quasi come se fosse un permesso temporaneo: magari in attesa della guarigione di un familiare malato. Infatti, la fidejussione è equiparata alla garanzia di un alloggio e di un sostentamento da parte di un immigrato o cittadino italiano che si assume questo onere e questa responsabilità.
Se si volesse pianificare con successo una politica di rimpatri, essi non potrebbero che essere volontari ed assistiti, al contrario delle sciocchezze che propone il Governo Meloni. Anziché chiedere al migrante di fornire obbligatoriamente una garanzia economica, bisognerebbe riconoscergli un finanziamento (un terzo di quello che si spenderebbe a trattenerlo in un CPR, quindi si risparmierebbe pure, e nello stesso tempo lo si aiuterebbe “a casa sua” nel concreto, dandogli un compenso che gli permetterebbe di tornare al suo paese e di contribuire al sostentamento della sua famiglia).
Il problema, dunque, è chiaro: per stupidità o per partito preso, il governo e la maggioranza del Parlamento sbagliano nell’interpretare e nel ratificare le Direttive comunitarie.
Va aggiunto che invocare continuamente l’Europa ha poco senso, considerando che sulla materia-immigrazione ha poche prerogative, tanto più che i singoli Paesi membri, fino ad oggi, si sono rifiutati di devolvere questa materia alla UE. E, di paradosso in paradosso, se l’Europa, dove e quando può, interviene, è costretta a sanzionare l’Italia, proprio per il fatto che non rispetta le norme europee.
Anche l’invocazione dell’intervento dell’ONU è propagandistica, essendo stata depauperata di risorse e di poteri d’intervento, differentemente dalla Nato, che dispone delle risorse per fare una guerra. Ogni volta che l’ONU ha tentato, sommessamente, di intervenire, ha dovuto sanzionare il nostro Paese e tutti i Paesi che non rispettano le convenzioni internazionali (nel caso dell’immigrazione, la Convenzione di Ginevra e la Convenzione d’Urban).
Ciò detto, l’Europa non condivide la politica che vuole portare avanti il governo italiano su questo tema cruciale: ci si scandalizza per le posizioni assunte da Francia e Germania, con tutto il sistema di manipolazione mediatico italiano e di nazionalismo-provincialismo, ma hanno ragione loro. Perché la Meloni, anziché stringere un’intesa forte con Francia e Germania per cambiare Dublino e convincere Orban su questa strada, va dal presidente ungherese e si lascia convincere che è meglio chiudere le frontiere, alzare i muri e bloccare le partenze, pagando i dittatori nordafricani. Nel frattempo, l’accordo di Dublino rimane e, in barba ad esso, noi continuiamo a violarlo, consentendo il transito delle nostre frontiere alla stragrande maggioranza degli immigrati irregolari verso la Francia e verso la Germania. Si è aperto così un conflitto diplomatico con la Germania, senza precedenti, perché la Germania finanzia le ONG che operano nel Mediterraneo in missione umanitaria, per salvare vite umane dai frequenti naufragi. Non è quello che dovremmo fare anche noi? A maggior ragione per la nostra posizione geografica…
Invece il governo italiano continua con l’opera di criminalizzazione delle ONG: altro che mondo alla rovescia, questa è l’apoteosi del male, accompagnata da una certa dose di ottusa ignoranza.
Se l’Italia vuole aiuto e rispetto dall’Europa, e dagli altri Paesi, deve accogliere, non tutti indiscriminatamente, ma secondo le norme europee ed internazionali: respingere o bloccare non è previsto.
Quindi occorre allestire un sistema nazionale di accoglienza, come grande infrastruttura pubblica nazionale e diffusa su tutto il territorio, con una norma di ripartizione obbligatoria proporzionale in tutti gli 8.000 Comuni italiani. Questa, peraltro, è la precondizione per convincere l’Europa a fare altrettanto, ossia favorendo la ripartizione obbligatoria tra tutti i Paesi membri, riformando radicalmente il trattato di Dublino.
Inoltre, occorre decidere che la missione dell’Italia e dell’Europa, nel Mediterraneo e non soltanto, è quella di salvare le persone, garantendo diritto di asilo e diritti umani, non la difesa di frontiere da un nemico immaginario, inventato e inesistente. Governando i flussi migratori dei rifugiati, ed anche dei lavoratori, in modo legale: non soltanto con un sistema adeguato di accoglienza, ma anche con regole di assistenza e fornendo servizi nei Paesi di origine e di transito dell’immigrazione. Ossia il contrario di hotspot per la detenzione ed il blocco delle partenze nei paesi del nord Africa, come vorrebbe il nostro governo.
Assistenza e servizi all’immigrazione regolare si possono attrezzare riformando la rete diplomatica e l’assetto geopolitico del tuo patrimonio di ambasciate e consolati, che oggi per oltre il 70% è collocato in Europa (dove la funzione diplomatica è tendente a zero), con presenze del tutto inadeguate in Africa e nei paesi di maggiore flusso migratorio.
Soltanto ragionando con questa apertura di orizzonte e con questa visione si potrebbe affrontare seriamente il tema ed ambire a governarlo; altrimenti si continuerà a rimestare nel torbido.
Pietro Soldini
Pubblicato il 4 Ottobre 2023