L’autunno di mobilitazione: non resti un semplice auspicio
Intervista ad Eliana Como: “La nostra sfida è mobilitare il paese in autunno contro le scelte antipopolari del Governo e portare 25 milioni di persone al voto contro l’Autonomia Differenziata. Tutto il resto sono chiacchiere”
L’assemblea generale CGIL svoltasi tra il 23 e il 25 luglio ha offerto la possibilità di ragionare a trecentosessanta gradi sull’attualità sindacale, ovvero su tutti i temi che caratterizzano (o avrebbero dovuto caratterizzare) l’apporto della CGIL al cospetto dei problemi vecchi e nuovi che assillano la vita delle lavoratrici e dei lavoratori.
Con Eliana Como, Portavoce dell’area alternativa ‘Le Radici del Sindacato’, abbiamo provato a scandagliare i singoli aspetti discussi nel corso dell’assemblea stessa, per provare a fissare le tappe in vista dell’autunno.
“La relazione introduttiva del segretario Landini – esordisce Como – è stata lunga e complessa, toccando tantissimi temi importanti. Servirebbe un Congresso per affrontarli… benché ne siano già stati fatti due, con all’ordine dei lavori molte di quelle questioni. Tutti i temi posti nella relazione, infatti, sono stati già oggetto di discussione e hanno condotto ad altrettante decisioni, con maggioranze granitiche. Ecco perché verrebbe da dire che ci è stato proposto di affrontare nei prossimi sei mesi ciò che non si è riusciti a realizzare negli ultimi sei anni…”.
Partirei da un aspetto squisitamente sindacale, che presenta enormi ricadute sulla qualità della vita delle persone: la questione contrattuale.
E’ stato detto, nel corso della relazione introduttiva, che non ci sono oggi le condizioni per firmare un contratto nel settore pubblico con le misere risorse che il Governo ha annunciato, e che non si possano firmare contratti nazionali sotto il salario minimo a 9 euro. E noi siamo d’accordo. Ma è un tema di cui ci dobbiamo fare carico tutti e tutte, non soltanto le categorie sedute ad un tavolo più difficile di altri. Il tema del modello contrattuale dovrebbe servire proprio a non abbandonare nessuno, facendo rientrare il confronto all’interno di una grande vertenza generale, che interessa e coinvolge tutti. È per questo che mi domando: dove è finita la discussione sul salario minimo? Perché esattamente a questo sarebbe dovuta servire: a trainare le categorie deboli, a porre il tema delle condizioni degli appalti anche nella contrattazione di sito, ad evitare la tentazione corporativa dei contratti più forti e del “si salvi chi può”, a rispondere ai precari, alle donne, ai giovani. Temo, invece, che sia stata usata l’anno scorso soltanto per dare una copertura sociale alla proposta di PD e M5S, quegli stessi che hanno scoperto il salario minimo soltanto quando si sono ritrovati all’opposizione. Mentre guai a parlarne fino a quando erano al Governo. Oggi, di salario minimo, la CGIL non parla più e per me è un grande errore.
E’ stato anche affermato dal Segretario generale che il modello contrattuale del Patto per la Fabbrica del 2018 va rivisto.
Sono d’accordo anche su questo. E aggiungo: finalmente è stato posto il problema. Si è detto anche che da quando è stato introdotto il sistema dell’IPCA, depurata dai costi energetici per adeguare i salari all’inflazione, perdiamo potere d’acquisto (si tratta del sistema sancito dall’accordo interconfederale separato del 2009, che la Cgil non firmò, ndr): è vero, ma soltanto in parte, perché i salari italiani perdono potere d’acquisto dal 1993. In ogni caso, il 2009 è stato un anno-spartiacque: l’articolo 8 della legge Sacconi, che ha introdotto le deroghe al contratto nazionale, è stato un punto di rottura e finalmente torniamo a parlarne.
I punti di rottura, a ben vedere, sono stati diversi, anche successivi…
Io penso che anche nel 2016 ci sia stato un terzo punto di rottura: è lì che abbiamo messo le basi del Patto per la Fabbrica, sottoscritto due anni dopo. È stato quando nel contratto dei metalmeccanici abbiamo accettato l’IPCA, depurato ex post, che portò negli anni successivi ad aumenti contrattuali da meno di 2 euro al mese. Accettammo, in quel contratto, con Landini segretario generale della Fiom e poi due anni dopo nel Patto per la Fabbrica, quello che, giustamente, nel 2009 non avevamo firmato nell’accordo confederale. Oltre ai buoni in benzina, all’aumento della flessibilità e dello straordinario e a Metasalute obbligatoria. Lo ricordo perché questa discussione non può essere ipocrita. Vogliamo rimettere in discussione l’IPCA come sistema di definizione dei salari nazionali? Va benissimo, ma discutiamo anche di tutto il resto. Discutiamo della riduzione dell’orario di lavoro, per esempio, che è urgente rispetto al tema del caldo nei posti di lavoro. Anche questo l’abbiamo scritto nei documenti congressuali ma non lo pratichiamo. Discutiamo del fatto che la sanità integrativa nei contratti nazionali sostituisce quella pubblica. Ammettiamo anche, a proposito di salario, che abbiamo sbagliato anche noi a inseguire, per anni, la leva del cuneo fiscale, perché abbassando le tasse i salari sembrano più alti, ma a danno dello stato sociale di tutte e tutti.
Il tutto accadeva mentre il potere contrattuale dei lavoratori e delle lavoratrici nelle fabbriche è andato peggiorando, per vari motivi.
Infatti non dappertutto si eleggono le RSU, mentre andrebbe fatto. Ha ragione il segretario su questo punto, ma sono anni che la Cgil lo dice ma poi non è conseguente. Altrettanto sulla contrattazione di sito, sui perimetri contrattuali, sul fatto che tutti gli accordi sindacali devono essere votati, sul fatto che il sindacato deve vivere di tessere e non delle entrate degli enti bilaterali. Senza ipocrisia, finalmente, è bene che si riapra un confronto su tutto ciò. Ma servirebbe anche con un po’ di autocritica. Proprio perché, come si diceva all’inizio, sono due Congressi che scriviamo documenti bellissimi ma non realizziamo un decimo di quelle cose. Dunque, occorre domandarsi perché questo gruppo dirigente non è riuscito in sei anni a fare quello che oggi propone in sei mesi. E che dovrebbe essere realizzato attraverso gruppi di lavoro la cui composizione esclude ogni forma di pluralismo interno. E, soprattutto, una discussione così importante non può essere fatta partendo dal presupposto, esplicitato apertamente, che da essa dipenderanno i futuri assenti dei gruppi dirigenti di questa organizzazione. È proprio questo che rischia di allontanare dal merito questa discussione, per farla diventare una resa dei conti tra gruppi dirigenti e spostarla sui destini più o meno personali delle burocrazie.
La relazione di Landini ha toccato anche il tema del rapporto con la CISL, tutt’altro che secondario.
Quel rapporto che è sempre più lontano e improponibile e non possiamo che essere d’accordo. Non condividevo, semmai, quando – fino a poco tempo fa – il Segretario sosteneva che non ci sarebbero più le condizioni per una divisione tra sigle e che sarebbe il momento di proporre un’imprecisata “unificazione” sindacale, con l’argomentazione che ci siamo allontanati inesorabilmente dal 900, dall’era caratterizzata dal PCI e dalla DC. Io ritengo che la CISL abbia sempre rappresentato il miglior alleato delle imprese e dei Governi; è soltanto cambiato il Governo e ci sembra peggiore dei precedenti. Ma la CISL è sempre lì, a difesa degli interessi dei padroni, non dei lavoratori e delle lavoratrici. E non possono sopravvivere simili equivoci sulla natura dei rispettivi sindacati proprio mentre siamo attesi, nei prossimi sei mesi, da una sfida gigantesca davanti: portare 25 milioni di persone al voto ai referendum.
In effetti in questo Paese è in atto una drammatica sfida tra visioni antitetiche della politica e della società e bisogna decidere da che parte stare…
Se perdiamo noi, vince Meloni, cioè la peggiore politica della storia di questa Repubblica. Perciò penso che tutte le nostre energie, tutte le nostre intelligenze vadano impiegate a costruire quella dimensione di mobilitazione di massa che è decisiva per portare così tanti cittadini alle urne. Questo gruppo dirigente, a partire dall’autunno, deve mobilitarsi, dalla legge di bilancio, dai tavoli contrattuali, dal salario minimo, dalla sicurezza sul lavoro, dalla difesa della sanità pubblica, dalle pensioni (tema, quest’ultimo, incredibilmente assente dalla discussione). È su questo che dobbiamo mettere in campo, a partire da oggi – e senza aspettare Natale, come è successo negli ultimi anni – una grande opposizione di massa a questo Governo, con mobilitazioni e scioperi che coinvolgano davvero le persone e le portino poi con noi quando in primavera si andrà a votare. Le persone torneranno a votare se facciamo capire loro e se promettiamo loro che stavolta facciamo sul serio e fino in fondo. La nostra sfida è quella di costruire i rapporti di forza fuori da qui. Non certo con una discussione tutta interna e finalizzata all’assetto dei futuri gruppi dirigenti e quindi del prossimo segretario generale.
Il tema referendario, è stato detto nel corso dell’Assemblea generale, dovrebbe essere caratterizzato dall’utilizzo “strategico” della parola “libertà”. Ritieni possa essere efficace?
Il termine libertà è bellissimo e nobile, ma temo sia estremamente confuso e non soltanto perché è utilizzabile a sinistra come a destra, dal cosiddetto “popolo delle libertà”. Non a caso, ogni 25 aprile dobbiamo ricordare che è la festa della Liberazione, non della Libertà. Quindi la proposta suggerita da una società di consulenza di comunicazione, di usare quel termine e quel tema come elemento centrale della campagna referendaria mi lascia molto perplessa. Cito testualmente: “la libertà di avere un posto fisso, di non morire sul lavoro, di potersi curare, di avere un salario dignitoso”… Libertà sarebbe uno dei termini più frequenti utilizzati nei social, così ci è stata presentata la proposta. Ma, lo ribadisco, rischiamo di non essere compresi.
Che cosa intendi dire?
Sadnam Singh, il lavoratore abbandonato morente sotto casa dal suo padrone-aguzzino di Latina, non era libero e come lui decine di migliaia di uomini e donne. Questo è un tema vero e va affrontato a partire dalla abrogazione di una legge come la ‘Bossi-Fini’ che, da oltre 20 anni, limita la libertà delle persone migranti nel nostro paese. Ma un operaio alla catena di montaggio è per definizione libero: svolge lavoro salariato, in quanto tale, libero. Libero di vendere la propria forza lavoro e, ahimè, anche di essere sfruttato 8 ore al giorno a 37 gradi dentro la fabbrica. Mentre un rider, che ha un quinto del suo salario e un decimo dei suoi diritti, a volte ti dice, paradossalmente, che si sente più libero di quell’operaio, perché non timbra il cartellino. Quindi… bella la parola libertà, di moda anche (infatti ne hanno abusato pure i Novax, non dimentichiamolo). Ma continuo a pensare che le nostre parole siano altre e facciano riferimento non all’individuo ma alla collettività. Non è la libertà di avere un salario dignitoso che dobbiamo rivendicare, ma il diritto! Il diritto alla sanità pubblica, a non morire sul lavoro, ad avere una casa e un posto di lavoro sicuro. Bella la parola libertà, ma preferisco diritti, uguaglianza, solidarietà, casomai autodeterminazione. A monte, continuo a pensare che sia proprio sbagliato leggere il “sentiment” (così si chiama l’analisi di tutto quello che viene detto e scritto su media e social), frutto di decenni di sconfitte e di arretramenti, fotografarlo dai social e costruire su questo la nostra campagna. Quasi 130 anni di storia consentono alla CGIL di fare il contrario, cioè decidere le nostre parole d’ordine e poi costruire noi il sentimento delle nostre persone (non il “sentiment”!). Non sui social ma nei posti di lavoro. Non attraverso una società di consulenza di comunicazione, ma attraverso i nostri delegati e le nostre delegate.
E a proposito di “sentimento”, il cinismo e l’ipocrisia che avvolgono la questione palestinese hanno raggiunto vette inimmaginabili.
In Palestina è in atto un genocidio, che prosegue da mesi e mesi, mentre la Comunità internazionale non prova più nemmeno imbarazzo. Sta succedendo qualcosa di ignobile e di scandaloso. La CGIL finora ha fatto troppo poco, bisogna dircelo. E dobbiamo interrogarci rapidamente su come possiamo fare di più, anche in questo caso coinvolgendo i movimenti e le associazioni, oltre alla moltitudine di cittadini indignati.
Paolo Repetto
Pubblicato il 6 Agosto 2024