Palazzina LAF, un film senza storia
Il film di Riondino, regista e attore, “Palazzina LAF”, ha suscitato notevoli consensi fra chi l’ha visto. Pochine, in verità, le critiche. I tanti consensi, in generale, sono venuti da chi non conosce i fatti reali; le critiche, sono state fatte da chi dentro quello stabilimento c’è stato e quei fatti li ha vissuti, anche se come “comparse (per usare un termine cinematografico)”. Spero solo di contribuire a fare un po’ di chiarezza e di restituire dignità ad alcuni personaggi che sono stati protagonisti di quella brutta vicenda.
Credo che quando si produce un film su un fatto realmente accaduto, non si possano oscurare gli antefatti che lo hanno determinato. È come se, raccontando l’arresto di Sacco e Vanzetti, il regista avesse trascurato il motivo del loro arresto e, soprattutto, il processo e le traversie che il legale dei due anarchici ha dovuto affrontare.
Ma torniamo al film. Sia chiaro, non c’è una critica alle interpretazioni delle attrici e degli attori. Mi soffermerò sugli aspetti che, mi sembra, mancano per rendere comprensibili quanto accaduto.
Per iniziare, credo, manchino le premesse di quello che ha determinato la “detenzione” vera e propria delle impiegate e degli impiegati. Ad esempio, non si fa assolutamente menzione dell’esodo della gran parte della vecchia classe operaia, quella delle grandi lotte. Siamo nel 1997 e nello stabilimento stanno entrando migliaia di giovani operai con i corsi di “Formazione e lavoro”, che duravano 2 anni e che, alla fine della cosiddetta formazione, potevano essere assunti. Con un numero minimo del 60% ma, in genere, chi veniva confermato era intorno al 70-80%. Una classe operaia giovane, senza alcuna esperienza di lotte e verso la quale si alimenta un ostracismo verso le organizzazioni sindacali. La “vecchia” classe operaia, quella rimasta, ormai demotivata, messa a dura prova dalle tante sconfitte, non aspetta altro che andare in prepensionamento. E si sa che, se non ci si mobilita, i padroni fanno quello che vogliono. Comunque, a quella classe operaia, nemmeno fu chiesto di mobilitarsi.
Tutto questo, però, alla proprietà (la famiglia Riva), non è bastato, al punto che ha lanciato una vera e propria campagna di cancellazione dal sindacato degli impiegati, con la parola d’ordine “Gli impiegati sono di mia proprietà”! E quasi tutti si cancellarono, pensando che il padrone sarebbe stato benevolo.
Per completare il quadro, Riva ha sguinzagliato un gruppo di uomini, i fiduciari, dei veri e propri aguzzini che, si badi, non intervenivano direttamente sugli operai, ma lo facevano mettendo alla “prova fedeltà” i capi dei vari reparti. Facendo diventare lo stabilimento una zona di terrore.
I consiglieri di Riva, alla fine di uno studio, conclusero che gli impiegati erano molti e che bisognava riportare il rapporto operai/impiegati ad un numero “accettabile” di impiegati. Per questo, i dirigenti misero in essere una procedura di cosiddetta “novazione”. Ovvero: tu da impiegato passerai alla condizione di operaio e andrai a fare un altro lavoro; io ti manterrò la retribuzione. “Proposta” che venne avanzata, anche, in previsione che alcuni sarebbero andati in pensione. Tanti impiegati accettarono, perché impauriti della fine che avrebbero fatto. Mentre una settantina di impiegate/impiegati rifiutarono il declassamento, firmando così la loro “condanna” alla reclusione nella Palazzina LAF: un edificio che, all’origine, era sede di impiegati e dirigenti che gestivano i Laminatoi a Freddo, poi dismessa e svuotata di ogni cosa. Quando arrivarono i primi impiegati, si trovarono in un ambiente desolante. Non c’era niente: non una sedia, non un tavolo, telefoni nemmeno a parlarne. In compenso, però, la palazzina era piantonata dai vigilanti interni, dipendenti dell’ILVA, per tutto il turno. La cosa non migliorò con l’arrivo dei restanti impiegati che non avevano accettato la novazione.
Ecco. Fatte queste premesse, possiamo chiedere a che serve far passare gli operai, attraverso il personaggio interpretato dallo stesso Riondino (Caterino), come una classe babbiona, che si fa accalappiare da un dirigente (amico?), che lo premia, grazie all’amicizia, facendolo capetto alle cokerie? A che serve farlo abitare in una fattoria decadente? A che serve far vedere che lì, nella palazzina, arriva un sindacalista, e si svela il fatto che nessuno di quegli impiegati (tranne qualcuno) è iscritto al sindacato e non per loro scelta?
La cosa certa è che in quel luogo infernale il sindacato non ci ha mai messo piede e che non ha potuto nemmeno avvicinarsi. Non che questo assolva il comportamento delle organizzazioni sindacali, anzi. Questo non poteva che servire a buttare altro fango su un sindacato che aveva ceduto su tante cose. Nemmeno i delegati furono mobilitati per fare un’azione di forza, se si vuole simbolica, ma che avrebbe potuto dare coraggio ai “reclusi”.
Altri elementi che non si comprendono sono quelli della pecora che muore, forse a voler richiamare un fatto accaduto quattordici anni dopo, a una masseria limitrofa lo stabilimento (la soppressione di interi greggi inquinati da diossina, dopo il sequestro degli impianti a caldo, cokerie, altiforni e acciaierie); o la sparizione del Giudice che, a seguito la denuncia degli impiegati, avvenuta nel 1998, fece il sopralluogo alla palazzina; e successivamente, al processo, si avvalse dell’indagine fatta dalla dottoressa psichiatra (anche essa scomparsa nel film), del Centro di Igiene Mentale di Taranto. Fu di quella indagine sui confinati, condotta dalla dottoressa Marisa Lieti, che il Giudice, il compianto Franco Sebastio, si avvalse per portare prove schiaccianti sullo stato di salute mentale degli impiegati internati nella palazzina. Ed è grazie a quelle indagini, sia mediche che di polizia, che ci furono delle condanne esemplari, sia dei Riva che di molti dirigenti.
Il ruolo del Giudice Riondino lo assegna a una donna, che dovrebbe essere il pubblico ministero che firmò l’atto di sequestro delle aree a caldo suddette, avvenuto nel 2012 e poi negli anni successivi. Mentre la dottoressa psichiatra appare con una toccata e fuga, fatta da una psicologa ignota.
Il frammento del film che dà conto del colpo di grazia alla classe operaia è nelle scene finali, quando Caterino (Riondino) si siede davanti ad un gruppo di operai che consumano una pausa, del tutto indifferenti a ciò che l’infame operaio ha compiuto contro dei lavoratori, comunque vittime. Ci scherzano un po’, ma niente di più. Non credo che, se ciò fosse avvenuto nella vita reale, Caterino l’avrebbe passata liscia: sarebbe stato coperto da improperi e allontanato. Non compare nel film un solo accenno alle motivazioni che avevano portato i Riva a mettere in atto le azioni repressive, che rappresentavano la premessa per stabilire “chi comanda” e mettere in evidenza lo sfruttamento capitalistico.
Mancanti le premesse, i fatti raccontati diventano meri fatti di cronaca. Mentre ciò che è avvenuto all’ILVA di Taranto rappresenta un fatto politico, ormai storico. Che mette in luce l’arroganza dei tanti padroni, i quali, pur di perseguire il profitto, non si fanno scrupolo a mettere sotto i piedi la dignità delle lavoratrici e dei lavoratori!
Ciccio Maresca
Assemblea generale CGIL Taranto, ex delegato Fiom Ilva
Pubblicato il 23 Febbraio 2024