Quando e perché “precariare stanca”

Lo scorso 7 giugno a Padova una partecipata assemblea sull’evoluzione del mercato del lavoro organizzata dall’area “Le Radici del Sindacato”.

“In Italia nel 2023 ci sono stati oltre 3 milioni di lavoratori a tempo determinato, a cui si aggiungono partite iva, lavoro autonomo atipico, collaborazioni, stagisti: un numero enorme, composto in gran parte da giovani”, ha spiegato Francesca Della Ratta, prima ricercatrice nella struttura ‘Mercato del Lavoro’ presso Inapp (l’Istituto per l’analisi di politiche pubbliche), introducendo i lavori del convegno che l’area di minoranza CGIL “Le Radici del Sindacato” ha organizzato il 7 giugno a Padova sul dramma della precarietà. Giovani donne e uomini iniziano così a lavorare nel nostro paese, con un contratto di breve durata e malpagato, prima spesso di finire all’estero. Oltre mille medici, ad esempio, varcano le frontiere ogni anno; un patrimonio umano con una formazione di alta qualità, per cui la pubblica istruzione ha speso nel tempo una piccola fortuna, donato generosamente dalle nostre politiche governative a sistema sanitari di altre nazioni. Ma se durante il periodo del Covid il lavoro ai medici non è mancato, il lavoro di tutti gli altri giovani precari è saltato, senza poter godere di forme di protezione come ammortizzatori sociali e smart working.

Tra gli occupati ci sono anche quelli che hanno un contratto di un giorno, ricordiamoci infatti che basta solo un’ora di lavoro per essere definiti “occupati”. Il 30,8% delle attivazioni nell’ultimo trimestre disponibile è relativo a contratti fino a 30 giorni: parliamo di 1,1 milioni di persone.

Secondo il rapporto presentato da Istat al Parlamento italiano, il numero complessivo dei lavoratori italiano “è in aumento”. Ma, attenzione, perché a pag. 74 del Rapporto si può comprendere chi realmente concorre alla formazione di quel dato: “L’incremento del numero e del peso dei lavoratori dipendenti a tempo determinato è andato di pari passo con la riduzione delle retribuzioni orarie tra il 2015 e il 2022 e dell’intensità dei rapporti di lavoro”. E ancora: “Il rischio di povertà raddoppia se si lavora part-time”. Per non dire di tutto il mondo del lavoro informale dei servizi, il cui apporto è aumentato in modo esponenziale.

Ma come potremmo definire il “lavoro informale”? Non lo sanno nemmeno i giovani occupati, così emerge dall’indagine Plus Inapp. Lavoro intermittente, a chiamata, equa retribuzione, diritto a ferie o a trattamento di malattia sono temi di cui per lo più sanno poco o nulla. Nei blog sui social è possibile leggere, tra le tante, la storia di una giovane impiegata full time a cui è stato negato l’aumento promesso da 750 a 900 euro al mese, dopo una lunga gavetta, perché costretta a stare a casa 5 giorni a causa di un’influenza. “Da noi si prende la tachipirina e si viene in ufficio”, le ha detto il capo. Tanti commenti, giustamente indignati, dei coetanei le consigliavano di rivolgersi a un avvocato, mentre altri suggerivano l’Ufficio del Lavoro e tantissimi consigliavano “la guardia di finanza”, che pare godere di grande stima. Ma nessuno consigliava di rivolgersi a un sindacato. Il che dimostra il tempo perduto in questi anni, e la necessità di riguadagnare terreno nei confronti di un’intera generazione.

In ogni caso, almeno la Cgil conosce il problema e ha svolto un’inchiesta, in base alla quale il 38% dei giovani ha svolto un lavoro diverso negli ultimi anni. Nonostante i preziosi consigli forniti a suo tempo dalla ministra Fornero, che raccomandava di non essere troppo “choosy” (schizzinosi, ndr), nella ricerca di un posto di lavoro, emergono impietose l’instabilità e la scarsa coerenza professionale con il proprio titolo di studio. Si cumulano poi altri svantaggi: orari antisociali, straordinari non retribuiti, nessuna rappresentanza sindacale, scarsa autonomia e flessibilità. L’adattabilità auspicata dalla Fornero si chiama spesso “exploitation”, ossia sfruttamento.

Tonia Maffei, esperta e consulente in politiche del lavoro, ha affrontato il problema della precarietà in rapporto ad innovazione tecnologica ed Intelligenza Artificiale (IA). “Il termine precario deriva dal latino prex precis, la prece: il precario viene significativamente associato a colui che prega per avere un posto di lavoro”. Se l’agognato lavoro pare un dono dal cielo e i diritti non si conoscono, il rapporto di potere tra datore di lavoro e lavoratore è evidentemente squilibrato: si accetta come normale ciò che non lo è. Ciò, storicamente, aumenta nei periodi di più intense innovazioni tecnologiche, che il proletariato impara in genere a comprendere e a governare in ritardo.

“Noi definiamo come intelligenza artificiale – ha spiegato Maffei – un sistema dotato di capacità umane, in termini di risposta a quesiti, soluzioni di problemi e svolgimento di un numero sempre maggiore di attività. L’IA mostra grandi potenzialità soprattutto dove le mansioni possono essere codificate: giornalismo, medicina, assicurazioni, traduzioni, gestioni risorse umane, e-commerce. Per il momento, meno dove un determinato algoritmo per prendere decisioni e dare informazioni manca di un aspetto umano fondamentale, come la giustizia, la pubblica amministrazione o l’insegnamento”.

La materia è complessa ed è in continua evoluzione. E’ importante per il mondo del lavoro comprenderla, farne oggetto di contrattazione e governare il cambiamento. Tra i possibili esiti negativi appaiono assai probabili la perdita di posti di lavoro, la rapida obsolescenza delle competenze, rischi nella privacy e nella circolazione dei dati, quando non nelle libertà personali. Ma, dal lato opposto, l’IA potrebbe incidere positivamente sulla fine di molti lavori pesanti e ripetitivi, a trasporti più sicuri, allo sviluppo di una nuova generazione di prodotti e servizi e, dunque, di nuove professionalità.

“Diventa dunque importante comprendere e regolamentare – ha proseguito Maffei – facendo in modo che la supervisione umana sia sempre presente. In questo, non possono mancare la formazione e la consapevolezza di lavoratrici e lavoratori, ed occorre prevedere un quadro di sanzioni contro possibili abusi”.

Del resto, è già stata approvato nel 2024 un primo importante provvedimento legislativo dell’Unione Europea, volto anche a prevenire possibili e invasivi controlli a distanza dei lavoratori. Si pensi alla rilevazione di tutti i movimenti svolti durante la prestazione di lavoro, non necessariamente a fini sanzionatori, ma finalizzati ad ottimizzare il processo produttivo. “E allora, perché questi dati, e il maggiore profitto, non potrebbero essere oggetto di contrattazione?”, ha concluso la ricercatrice. Lasciando intendere come la discussione sia in divenire e vada assolutamente governata dal sindacato.

Davide Vasconi

Pubblicato il 26 Giugno 2024