Quelle macerie lasciate della “famiglia Fiat”

Prendiamo spunto dal capolavoro di Thomas Mann, “Storia e decadenza di una grande famiglia”, che descrive la malinconica e lenta rovina di una grande impresa del commercio marittimo di Lubecca, tra rinnovi generazionali disastrosi e sogni infranti, per arrivare alla Torino di oggi. L’ iconico palazzo di Corso Umberto Agnelli, con la grande scritta, un tempo cuore pulsante dell’industria manifatturiera e della classe operaia italiana, è in vendita su “immobiliare.it”.

I suoi valenti tecnici sono in pensione da anni, o ancora giovani se ne sono andati all’estero. I suoi impiegati, che ancora si aggirano nei chilometrici corridoi, con i lignei infissi vintage, si sentono sperduti. A loro è stato detto senza tanti complimenti di cercarsi un altro posto di lavoro, il prima possibile.

Nei corsi universitari di economia industriale, spesso si sente dire che in generale gli italiani sono ottimi imprenditori e pessimi capitalisti. La situazione di questo paese è molto difficile, perché opera sostanzialmente su nicchie di mercato, che magari vanno anche molto bene ma che si affidano su aziende di dimensioni medio piccole, che raramente sanno fare sistema, e per lo più sono incentrate sul modello familistico. Certo è che se lo Stato dà alla più grande di queste sei miliardi e tre di garanzia, per pagarsi un dividendo astronomico e per ridurre la produzione del 50%, non fa politica industriale; ma dandoli a pessimi imprenditori e pessimi capitalisti commette una vera e propria ignominia nazionale.

Perché dopo quello che è stato fatto e quello che è stato dato, i dati sulla produzione che escono giorno dopo giorno, stabilimento per stabilimento, dimostrano la sistematica distruzione di un patrimonio nazionale, che non appartiene solo a ‘the family’, ma all’impegno di generazioni di tecnici e operai. Appartiene a un paese che non ha materie prime, ma che ha costruito un primato industriale e un’identità nazionale solo grazie ad ingegno e a soluzioni.  E di tutto ciò fanno parte anche lotte decennali, che hanno contribuito alla crescita dei diritti di tutta la classe lavoratrice.

Intendiamoci, i problemi europei dell’Auto sono veri, e non sono solo limitati al nostro paese. Il calo della vendita di auto è diffuso ovunque, e non è tanto dovuto al ‘green’, ma da un lato all’indirizzo produttivo del settore, che ad esempio ha fatto quasi del tutto sparire le auto di classe A (le care vecchie utilitarie), dall’altro al generale impoverimento della classe lavoratrice, particolarmente in Italia. Non è difficile appurare quanti mesi di stipendio operaio sono necessari a comprare il più economico dei modelli, rispetto a non molti anni fa.

Tuttavia, il problema è che, se in Francia o in Germania la produzione si contrae, fino anche a ipotizzare perdite di posti di lavoro, in Italia la produzione va all’estero. La Maserati, ad esempio, pur mantenendo una quota di tutto rispetto pur non essendo di fascia economica, in Italia non esiste praticamente più: i centri di ricerca sono stati spostati in Francia; i fornitori di Modena vengono sostituiti tutti con fornitori ubicati al di fuori dei confini nazionali.

Lo sciopero Fim Fiom Uilm automotive del 18 ottobre arriva in ritardo, ma non può e non deve rimanere una iniziativa isolata. Perché questa battaglia nazionale non può essere lasciata alla Meloni. Perchè abbiamo dovuto aspettare mesi Cisl e Uil, e ancora stiamo aspettando tutta la sinistra italiana – o almeno quella che è stata al governo per anni – che ancora tace. E allora abbiamo il coraggio di dirlo, una volta per tutte: chi se ne importa se si sono comprati ‘Repubblica’? Tantopiù che in questi giorni pare se ne vogliano disfare, a dimostrazione della volatilità degli impegni assunti nell’ambito delle speculazioni finanziarie anche in ambito editoriale… E se non possono essersi comprati un colpevole silenzio, perchè la parola Elkann non viene pronunciata nemmeno sotto tortura dagli esponenti politici PD?

E invece questa parola va pronunciata, perché occorre parlare di un capitalismo cinico, predatorio e senza alcun senso di responsabilità sociale. Quando venne venduta la Magneti Marelli ad un fondo americano super indebitato, c’è chi chiese la ‘golden power’ da parte del Ministero dell’Economia. Ma siccome l’Italia purtroppo non è la Francia, bastò la promessa di garantire l’occupazione futura. Ed ecco che, poco dopo, cercarono di chiudere Crevalcore.

Non basta dunque chiamare John Elkann a riferire in Parlamento. Dobbiamo lottare tutti insieme. Deve essere una grande lotta nazionale, perché lo Stato faccia la sua parte, e faccia politica industriale degna di questo nome. C’è l’urgenza di una svolta radicale e di un cambio di marcia immediato. Perché quel patrimonio comune di filiera industriale, quando se ne andrà, non tornerà mai più.

Davide Vasconi

Pubblicato il 9 Ottobre 2024