Reparti-confino? La Fiat fece scuola
A proposito di reparti confino, vi racconto un’altra storia, ambientata molti anni prima della palazzina LAF di Taranto. Sono gli anni 50, siamo nella lontana periferia di Torino, in via Peschiera 299, una strada quasi abbandonata a se stessa, dove sorge la OSR, Officina Sussidiaria Ricambi di Fiat, ribattezzata poco dopo Officina Stella Rossa.
Un intero stabilimento vuoto, lontano dal cuore della produzione di Mirafiori, interamente adibito a confino degli operai comunisti, iscritti alla Fiom e al PCI. Negli anni 50, sistematicamente, FIAT trasferì lì gli operai dissidenti per punirli e isolarli dal resto della produzione. Una durissima repressione aziendale che fu la premessa della storica sconfitta della Fiom alle elezioni della commissione interna del 1955.
Nella OSR non c’era da lavorare. Persino i pochi macchinari presenti erano vecchi e arrugginiti. Chi veniva mandato lì, era destinato all’inattività. In quel capannone abbandonato, FIAT stava sperimentando “l’annullamento di tutti i diritti, di tutte le ragioni per le quali un uomo lavora, studia, si sacrifica, acquista dei meriti e dei privilegi” (sono le parole usate da Remo Bracchi, uno degli operai intervistati).
Eppure, quegli operai, rinchiusi lì dentro, riuscirono a trovare il modo di resistere. Erano stati privati di tutto, ma non della loro dignità operaia. Usarono il loro mestiere per aggiustare le macchine e farle ripartire, trovando comunque modo di operare, di mantenere viva la solidarietà e la stessa libertà sindacale, nonostante tutto quello che FIAT stava facendo per calpestarla.
Fu grazie a questa resistenza che la Fiom riuscì a sopravvivere, come una fiammella accesa, fino a quando, nel 1962 e poi nel 1968/69, riesplose, quasi improvvisa, quella conflittualità operaia che consentì di ristabilire un diverso rapporto di potere tra operai e padrone, abolendo l’arbitrio di quest’ultimo e aprendo i cancelli allo Statuto dei Lavoratori, con il quale in fabbrica entrò la Costituzione.
Questa storia la trovate raccontata, attraverso le voci di chi l’ha vissuta, in un testo storico di Aris Accornero: “FIAT confino” del 1959, successivamente riedito con “Il mestiere dell’avanguardia”, edizione curata nel 1981 insieme a Vittorio Rieser. Sono due testi ormai rari, che raccontano la grande dignità di questa resistenza operaia. Sono una pietra miliare della inchiesta operaia, perché sono gli stessi operai che parlano e che raccontano la loro storia. E chi li intervista, Accornero, è “uno di loro”.
A me li regalò più di vent’anni fa proprio lui, di cui ero allieva e li conservo come se, in fondo, fossero un suo lascito, una eredità che ho avuto il privilegio di raccogliere, ascoltandola, prima di tutto, dai suoi racconti.
Il professor Accornero era stato parte di questa storia, non da osservatore o da studioso. L’aveva vissuta lui stesso, quando da operaio fu licenziato per rappresaglia sindacale negli stessi anni dalla Riv Skf, una azienda dell’indotto FIAT che produceva cuscinetti a sfera. In “Fiat Confino” riportò fedelmente e con il suo proverbiale rigore, le parole degli operai della OSR da lui intervistati.
Ogni intervista è preceduta da una nota che descrive chi sta parlando. Ognuna di queste note è una fotografia. Ti sembra di avere davanti chi sta parlando. Ti sembra di vederlo, di ascoltarlo. Ne intuisci la fatica e la dignità.
Eccone una, è quella che introduce l’intervista all’operaio Piero Baldini: “Ventidue anni di Fiat. Ha l’aspetto tipico dell’operaio qualificatissimo di vecchio stampo. Porta sempre un maglione scuro e parla un po’ sibilando, per un grosso buco nero fra i denti davanti; se espone qualche sua idea dice: È una mia idea e non vale molto, facendo grandi cenni di diniego e scuotendo un volto oblungo sul collo dinoccolato.
Fu il primo operaio che la Fiat mandò alla Stella Rossa e vi rimase fino alla fine, mantenendo da buon comunista una posizione di grande fierezza in tutte le traversie. Non ha ancora trovato lavoro, nonostante le sue capacità, per l’età – 50 anni – e per essere un licenziato Fiat; a volte lo chiamano per fare degli impianti elettrici in piccole officine o abitazioni.
Ha moglie e una figlia disoccupata. In undici anni ha donato quattordici litri di sangue e mostra con orgoglio misto a triste ironia le medaglie che ha meritato in segno di riconoscenza, dalla società, dagli uomini”.
Eliana Como
Pubblicato il 23 Febbraio 2024