Satnam e le altre vittime del neoschiavismo
Un bracciante, Satnam Singh, ha avuto un brutto incidente sul lavoro a Latina; e siccome non era regolare, è stato ucciso.
Di fronte ad un crimine così efferato, non si può rimanere in silenzio, quindi persino la Meloni sì è affrettata a dichiarare il suo sdegno.
Ma a volte ci si affretta a dichiarare, così come ci si affretta ad ammettere delle responsabilità, per chiudere un “caso”, per provare ad orientare un’inchiesta giudiziaria, per non voler scoprire cosa c’è dietro. Ossia per “archiviare” un dramma come delitto penale soggettivo ed assicurare il criminale alla giustizia. Ma questa vicenda non si può chiudere così: non si può.
Sempre più spesso succede che qualcuno ci lascia le penne barbaramente mentre sta lavorando. Ma qual è il contesto socio-lavorativo e normativo in cui vivono quotidianamente centinaia di migliaia di persone, lavoratori e lavoratrici? Ci riferiamo a coloro che la sfangano dall’incidente mortale, ma che consumano quotidianamente la loro vita senza diritti e senza futuro? Da che cosa origina e trae alimento il fenomeno di “super sfruttamento”, che sarebbe più corretto definire “neoschiavismo”?
Quanto accaduto a Latina deve servire a scoperchiare quel sistema criminogeno che gestisce segmenti importanti del mercato del lavoro, in particolare quello della manodopera immigrata, ma non soltanto.
Ogni giorno la rabbia sale più forte per ciò che ci succede intorno; ed in parallelo ci sentiamo aggrediti da una sorta di rassegnazione nichilista, per lo scarto che si avverte nella reazione, debole e contraddittoria, della politica, dei sindacati e delle organizzazioni della società civile. La legge Bossi-Fini è una legge razzista ed è devastante dal punto di vista della discriminazione dei diritti dei lavoratori e della demolizione del governo del mercato del lavoro. Eppure è in vigore da 22 anni e gli interventi che si sono succeduti nel corso del tempo (i cosiddetti ‘decreti sicurezza’) l’hanno resa ancora più mostruosa.
C’è una relazione diretta tra le norme che prevedono di mettere nelle mani del padrone le sorti del lavoratore immigrato, non solo dal punto di vista lavorativo ma anche da un punto di vista del suo stato di regolarità giuridica (del permesso di soggiorno), ed il fenomeno neoschiavista, che si espande a partire dai settori più compromessi del mercato del lavoro informale e precario ed invade tutto il mondo del lavoro.
Altro che lotta agli scafisti e all’immigrazione clandestina: sono le norme proibitive e criminogene che producono immigrazione irregolare e lavoro nero, che consegnano la vita degli immigrati prima nelle mani degli scafisti e poi dei caporali. Vite invisibili che si rendono visibili solo da cadaveri morti in mare o sul lavoro.
Se ci fosse un barlume di onestà intellettuale, anche i dati di crescita dell’occupazione andrebbero letti sotto questa chiave: se posso assumere chi e come voglio, se posso evadere ogni costo del lavoro, compreso il salario che diventa sempre più misero, se posso licenziare quando voglio senza costi e oneri aggiuntivi, se posso pure deresponsabilizzarmi completamente rispetto alla sicurezza del lavoro di cui è responsabile solo il lavoratore/trice ed il padreterno, allora posso anche arrivare al pieno impiego.
Tornando alla Bossi-Fini, già nel 2007 uno dei primi firmatari (Gianfranco Fini) aveva detto che era da cambiare, soprattutto sulle norme del lavoro a chiamata dall’estero; senonché la legge è rimasta così. Nel 2011-12 il Partito Radicale fece un tentativo di referendum abrogativo che arrivò a 240 mila firme raccolte, ma come non furono sufficienti: il sottoscritto aderì a titolo personale, purtroppo senza riuscire a convincere la CGIL sulla bontà di quel referendum. Mentre oggi, meritoriamente e per risalire la china rimuovendo le norme più significative che hanno tagliato le ali al mondo del lavoro dipendente, la CGIL propone un pacchetto di referendum abrogativi; ma si dimentica nuovamente della Bossi-Fini che, forse, chissà, sarà cambiata ancora in peggio dal governo Meloni.
Proprio la premier, in piena campagna elettorale e qualche settimana prima della morte di Satnam Singh, si è recata alla Procura della Repubblica a presentare un esposto, dopo che evidentemente le hanno fatto notare le distorsioni nella gestione dei lavoratori immigrati nel lavoro stagionale. Se non fosse stato un colpo di teatro e di propaganda elettorale, avrebbe scoperto che quelle distorsioni risalgono alle norme volutamente incongrue e proibitive della Bossi-Fini. Anzi se avrà incontrato un Giudice competente, le avrà spiegato lui stesso il corto circuito del sistema. Lo stesso corto circuito per cui, sempre nella procura di Latina, c’è una indagine della magistratura, in cui è coinvolta anche l’azienda di Satnam Singh, che è aperta da 5 anni e non si chiude. Sappiamo bene che spesso quei lavoratori non vengono messi in regola, che vengono sottoposti ad orari e carichi di lavoro insostenibili, che vengono imbottiti di psicofarmaci, che vengono sequestrati loro i documenti, che vengono ricattati e sottopagati e che si restituiscono quasi tutta quella miseria che percepiscono per pagare gli affitti dei tuguri dove vivono. Che cosa c’è ancora da scoprire o da nascondere?
E dire che, ormai, nessuno nega che il nostro paese ha bisogno di 200.000 lavoratori stranieri ogni anno per coprire la domanda del mercato del lavoro. Ma tutti sbavano con la retorica dell’immigrazione scelta e non subita, non si accorgono di quanto sia ipocrita questa affermazione e di quanto sia proprio scelta questa immigrazione disperata perché utile e funzionale ad un modello economico, quello italiano, che presenta un quinto della sua economia come informale, fiscalmente evasiva e sommersa. È l’economia sommersa che chiede manodopera sommersa.
Quindi si fa di tutto per tenerla nascosta: se la si volesse far emergere, occorrerebbe accogliere e censire questa manodopera, elaborare delle liste di prenotazione, allestire dei centri di accoglienza pubblici dove i lavoratori stagionali troverebbero alloggio, vitto, acqua, luce ecc.
Occorrerebbe fare in modo che quando arrivano alla stazione di Nardò, Rosarno, San Nicola Varco, Latina ecc….non trovino i caporali, bensì i servizi all’impiego. Ciò non significa che tutto debba gravare sulle istituzioni pubbliche; le aziende devono farsi carico di quei costi, come previsto dai CCNL dei vari settori.
Il padre di chi scrive era un bracciante e a giugno di ogni anno faceva la campagna di mietitura e trebbiatura del grano nella maremma laziale (Monte Romano-Tarquinia), negli anni 50-60: stava 40 giorni fuori casa a meno di 100 km di distanza, senza mezzi di trasporto. Ma il padrone, a sue spese, allestiva il campo dove i lavoratori potevano dormire, mangiare e lavarsi, così come previsto dal contratto. Oggi siamo tornati indietro: i lavoratori immigrati sono costretti a vivere nei cosiddetti ‘ghetti’, senza acqua, senza corrente elettrica, senza servizi, e ogni tanto muoiono bruciati tra i loro cartoni. Mentre lo Stato non investe un euro per l’accoglienza; e le poche risorse che spende sono destinate a sgomberi e repressioni.
Nel 2011 a Nardò si svolse il primo sciopero dei lavoratori immigrati e fu un fatto storico che diede vita ad una vertenza sindacale vera e propria, con un accordo che prevedeva una forma pubblica di collocamento gestita congiuntamente da Comune, sindacati ed associazioni imprenditoriali. Fu un colpo duro al caporalato e tutto nacque da un centro d’accoglienza nella Masseria Boncuri, gestito dalla cooperativa sociale Finisterre, finanziato dal Ministero dell’Interno, dove si convogliavano gli immigrati strappandoli ai caporali, e informandoli dei loro diritti e delle tabelle salariali. Si trattò, a ben vedere, di una sperimentazione di un modello alternativo e vincente rispetto al caporalato ed al neoschiavismo; infatti l’anno successivo il Ministero revocò il finanziamento e chiuse la Masseria Boncuri. Poi, in seguito alla lotta del sindacato dei lavoratori agricoli, arrivò la legge sul caporalato: sicuramente una buona cosa, ma non sufficiente. Perché è una norma repressiva, nel migliore dei casi, che in realtà non funziona neanche bene, poiché le denunce sono pochissime e le indagini lunghe ed inconcludenti, in quanto il soggetto lavoratore immigrato è così debole, ricattabile e privo di tutele, che non ha la forza di farsi parte civile e denunciare il suo status e quello dei suoi compagni. Anche per rendere più efficace la repressione, occorre partire dalla prevenzione e quindi dal cambiamento delle norme primarie (e torniamo così alla legge ‘Bossi-Fini’).
Abbiamo già detto e scritto che non si tratta soltanto della manodopera migrante, ma di tutto il mercato del lavoro. Le leggi antisindacali sono partite proprio dalla deregulation del collocamento: oggi, come è noto, non esiste di fatto un sistema di collocamento pubblico e trasparente, e su 100 avviamenti al lavoro soltanto 3 sono effettuati tramite le agenzie per l’impiego. Tutto il resto è in mano al padrone tramite i suoi strumenti più o meno sofisticati, più o meno legali, dalle agenzie interinali ai caporali. Se un giovane lavoratore entra nel mondo del lavoro con questa totale soggezione al padrone ed ai suoi scagnozzi, sarà difficile per lui andare a cercare il sindacato per informarsi e rivendicare diritti. Ecco perché non è sufficiente l’azione del sindacato dentro i posti di lavoro, peraltro sempre più polverizzati dalle nuove forme del lavoro moderno tecnologico e digitale: occorre riappropriarsi di un ruolo negoziale e di controllo di un sistema di collocamento pubblico e trasparente. Senza diritti e pari opportunità nella ricerca di lavoro, non ci saranno diritti nei posti di lavoro.
Questo è il terreno della lotta, altrimenti Satman Singh rimarrà soltanto uno dei tanti in attesa del prossimo.
Pietro Soldini
Pubblicato il 8 Luglio 2024