Sul congresso-show deferente con la Meloni
Se fosse stato al posto di Landini, il sottoscritto avrebbe concluso il congresso, anziché con una certa retorica celebrativa, affermando piuttosto: “Mai più un congresso così!”. Un congresso durato peraltro dodici mesi, in mezzo ad una guerra e alla campagna elettorale per le Politiche, che ha portato al governo del paese la destra post-fascista che ha saputo rinnovarsi, pur mantenendo le sue radici. Al contrario della sinistra, che è impegnata da oltre un trentennio in una transizione verso il nulla.
Un Congresso, il nostro, impegnato ad evitare il confronto congressuale più che a farlo. E che non ha suscitato curiosità ed attenzione né all’interno né all’esterno, considerando che ha fatto notizia, all’esterno, soltanto grazie a due episodi: quello del buontempone che a Bologna – anziché mettere l’inno dei lavoratori – ha fatto suonare l’inno dell’URSS; e quello dell’invito recapitato al presidente del consiglio Giorgia Meloni, poi presente a Rimini.
Per quanto riguarda invece la nostra Organizzazione vista dall’interno, è sempre più difficile puntare sulla retorica della partecipazione, in quanto si è presentato alle assemblee congressuali circa un quarto dei nostri iscritti. I quali, peraltro, negli ultimi dieci anni sono diminuiti in modo consistente e preoccupante.
A dirla proprio tutta, nelle assemblee in cui ha potuto partecipare a pieno titolo la minoranza che presentava un documento alternativo (meno di 1.000 su 34.000 assemblee), in conseguenza di una norma regolamentare discriminatoria imposta a maggioranza, la presenza non è mai stata superiore alla media del 10%. Quindi, su un totale di 1.100.000 partecipanti, parliamo di 110.000 persone, a fronte delle quali il documento di minoranza ha preso 32.000 voti (oltre il 30%).
Un gruppo dirigente attento ed illuminato dovrebbe farsi dunque dei conticini un po’ più realistici di quelli presentati formalmente, per capire lo stato di disagio e di dissenso interno al mondo del lavoro. Anziché crogiolarsi sulle finte percentuali “bulgare” e sui finti unanimismi che, con l’intento di squalificare la minoranza, finiscono per squalificare proprio quella stessa maggioranza “bulgara”. Le chiacchiere non bastano più e neanche le proposte; anzi, queste servono soltanto per orientare Salvini ed il governo a fare il contrario.
Se non si organizzano le lotte, se non arrivano i risultati – mentre i salari rimangono i più bassi d’Europa, e le pensioni altrettanto, con un welfare scadente, la sanità in pezzi e la sicurezza sul lavoro non garantita – il dissenso ed il disagio aumenteranno. E guai alla Cgil se non venisse più rappresentata neanche da una minoranza interna, perché quel disagio si trasformerebbe irreversibilmente in indifferenza ed abbandono.
Considero dunque interesse della Cgil dare voce e giusta rappresentanza alla minoranza in tutte le istanze congressuali, comprese le Segreterie, al di là dei numeri formali.
Oltre al giusto riconoscimento, per la minoranza, occorre anche il giusto rispetto, e non nascondo un certo sconcerto per alcune intemperanze ed insulti che ho dovuto leggere ed ascoltare.
Forse, un’altra formula organizzativa per il prossimo Congresso della CGIL, che sappia utilizzare i nuovi strumenti digitali, potrebbe essere studiata e sperimentata, con l’obiettivo di essere più tempestivi, più efficaci, più coinvolgenti, più trasparenti e nello stesso tempo inducendo una maggiore partecipazione e protagonismo dal basso.
Si è molto parlato dell’invito e della presenza della Meloni al nostro Congresso: anche a mente fredda, la mia opinione, sempre più convinta, è che avremmo dovuto non invitarla, e motivare politicamente il non invito, stando al presupposto secondo cui “il Presidente del Consiglio è sempre stato invitato”. Presupposto oltretutto da confutare, visto che ci risultano almeno tre precedenti in cui il premier non è stato invitato (Tambroni nel 1960, Andreotti nel 1972 e Berlusconi nel 2002), in tutti e tre i casi con una motivazione politica precisa: ossia il fatto che la destra post-fascista era presente in quei governi. Pertanto, esistevano tutte le ragioni per mantenere l’eccezione anche nel caso di questo governo e di questo presidente del consiglio, considerando ciò che dice e anche ciò che non dice ma fa, interpretando il ruolo di nemico del mondo del lavoro dipendente che noi rappresentiamo.
La CGIL non ha governi amici, ma deve saper riconoscere i governi nemici: con essi il confronto si fa in piazza e nei tavoli di trattative. Il colmo del paradosso è di voler dimostrare di non essere indulgenti con i governi di centrosinistra, comportandosi allo stesso modo, cioè con la stessa indulgenza, nei confronti dei governi di destra. Il tema della mobilitazione contro il governo viene preso, così, alla lontana, come se dovessimo ancora aspettare la prova dei fatti, mentre la Meloni con i provvedimenti già presi (flat tax, reddito di cittadinanza, riforma fiscale, codice degli appalti) ha realizzato un terzo del suo programma elettorale.
Inoltre, rispetto al suo passato fascista, la premier non dice la cosa fondamentale, che non è quella banale di prendere le distanze storiche, addirittura generazionali, dal fascismo, ma quella di dichiararsi antifascista, come recita la Costituzione. Poi, una volta invitata al congresso, compiuto l’errore, era proprio necessaria tutta questa deferenza?
Che cosa stiamo aspettando, dunque? Ed il problema non è uno sciopero in più o in meno di otto ore o di quattro, articolato o generale; il problema è una scelta attitudinale, un approccio consociativo, ormai vuoto di contenuti. Al contrario, abbiamo la necessità di reinvestire nella lotta sociale, altrimenti il sindacato ed il movimento dei lavoratori non saranno più protagonisti del conflitto sociale, bensì un soggetto passivo in una sorta di gioco di società.
In un congresso costruito come uno studio tv, come un talk-show, ci poteva stare un momento di protagonismo spontaneo della platea dei delegati che cantava Bella ciao di fronte alla Meloni? Qualcuno potrebbe spiegare per quale ragione lei avrebbe dovuto considerarlo uno sgarbo? Non è forse lei che dovrebbe rinunciare al suo retroterra culturale, anche simbolico? O siamo piuttosto noi che dovremmo reprimere, per pseudo-rispetto istituzionale, i nostri simboli antifascisti? Bella ciao rappresenta molto bene quello che siamo, è sempre stata cantata in tutti i congressi della Cgil. Ma in questo congresso non è stato permesso di cantarla.
Forse la seguente può essere la rappresentazione plastica del paradosso della Cgil: si è tradizionalisti su cose nelle quali sarebbe necessario uno scatto innovativo, mentre si innova laddove sarebbe necessario mantenere un legame forte con le proprie radici.
Pietro Soldini
Pubblicato il 5 Aprile 2023