Un movimento di lotta per la “climate justice”
Presentato a Livorno il libro “L’era della giustizia climatica”, di Emanuele Leonardi e Paola Imperatore
Dare prospettive al nesso ambiente-lavoro-conflittualità-potere è l’elemento strategico principale (unito alla questione della pace) della politica di oggi.
Nel corso della presentazione del libro “L’era della giustizia climatica – Prospettive politiche per una transizione ecologica dal basso”, di Emanuele Leonardi e Paola Imperatore (Orthotes editrice, 2023, pp. 166, euro 17) si è discusso con gli autori su come il capitale e le istituzioni – ONU, UE, Stati – hanno gestito la crisi ambientale e, di fronte a questo elemento strutturale, su come agire come movimento dei lavoratori.
Di fatto, viviamo dentro a una dialettica della catastrofe che entra nella prassi economica, dalla Romagna alluvionata, ai miliardi – a debito – del Pnrr, alla finanziarizzazione delle quote di emissione di CO2. Per dirla con Jason Moore, il capitalocene in cui viviamo da secoli fa convivere l’imperativo dei profitti col tentativo di arginare il disastro.
Seppur riconoscendo il problema dei mutamenti climatici, l’ONU (protocollo di Kyoto 1997), seguendo una logica di “resilienza finanziaria”, ha creato un sistema di scambio di crediti di emissione, ovvero dei titoli equivalenti ad una tonnellata di CO2 rimossa o ridotta a seguito di un progetto di tutela ambientale. Queste misure assumono valore politico poiché riconoscono il problema, ma hanno il limite di non risolverlo. Anzi, limitano o impediscono il varo di misure più drastiche, queste sì funzionali a cambiare il modo di produrre e consumare, come, ad esempio, il bando dei CFC (protocollo di Montreal 1987).
La “giustizia climatica” è un’altra cosa. Risponde a diversi aspetti di carattere interpretativo in cui emerge però che chi paga di più il prezzo della catastrofe è chi ha meno. I grandi inquinatori sono quelli che viaggiano in jet privato e devastano con le loro imprese e non i miliardi di poveri e poverissimi del sud (e del nord) del mondo che subiscono le conseguenze della desertificazione, degli uragani, delle alluvioni e via elencando.
Sono i movimenti globali di massa del 2019 a porre il tema della “climate justice” con l’aut aut: o l’ambiente o i profitti. A ciò si aggiunge un elemento non negoziabile: la necessità di agire subito, ora. Quindi, se il mondo azzerasse – subito – la filiera delle armi e della guerra guadagneremmo anni di tempo utili ad organizzare l’uscita dal fossile. Ma le cancellerie sono prese da altre priorità. In sede Onu si discute se adattare l’umanità alle nuove intemperie e gestire con le tecnologie le conseguenze dei mutamenti climatici o tentare l’alternativa cambiando il modello di sviluppo. Le due posizioni sono rispettivamente sostenute dai paesi campioni del fossile come Usa, Arabi del Golfo, Russia e la seconda via è caldamente sostenuta dal Brasile di Lula, dal Sudafrica e, in misura originale, dalla Cina. Quest’ultima primeggia nell’elettrico.
La questione ambientale è una questione economica ed è quindi una questione operaia. Ne è testimonianza l’esperienza di Gkn, dove è l’incontro tra sapere operaio e prospettiva ecologista a disegnare la via da percorrere per rilanciare la fabbrica. Col sole e con la pioggia… rilanciare la lotta!
Diego Chiaraluce
Delegato Flc-CGIL Roma e Lazio
Pubblicato il 8 Luglio 2024