Una giusta transizione ecologica e sociale. O scomparire
La ‘Bosch Tecnologie Diesel Italia’ di Modugno, Bari, si trova ad un bivio: non si può non scegliere
Le grandi fabbriche italiane dell’automotive e del relativo indotto vivono da anni una fase di enormi difficoltà legate, fra gli altri aspetti, alla dipendenza dal modello di sviluppo tedesco, oggi in piena crisi. Per lungo tempo dimenticate e rimosse dall’agenda pubblica e da quella mediatica, le problematiche del settore auto risuonano oggi a gran voce a seguito delle dimissioni del CEO di Stellantis, Carlos Tavares. Dimissioni che hanno riportato sulle prime pagine di tutti i giornali il tema della crisi del settore.
Come ben ricorda il recente rapporto SVIMEZ (2024), ‘l’auto è Mezzogiorno’: nei primi nove mesi del 2024, il 90% dei veicoli prodotti in Italia è uscito dalle fabbriche del Sud, situate a Pomigliano, Melfi e Atessa, dove lavorano circa 24 mila persone. E sebbene il 75% del valore aggiunto della filiera sia attribuibile alla componentistica, che è maggiormente concentrata nelle regioni settentrionali, anche il Sud contribuisce con un indotto che impiega 20 mila lavoratori, prevalentemente in Puglia, Abruzzo e Campania. La filiera dell’automotive, nel contesto meridionale, comprende 29 mila aziende, genera 13 miliardi di valore aggiunto e dà lavoro a quasi 300 mila persone. Come è facile intuire, il suo ridimensionamento prospetta delle conseguenze estremamente rilevanti in termini di disoccupazione, povertà e coesione sociale.
In questo quadro si inserisce la vicenda dello stabilimento Bosch Tecnologie Diesel Italia di Modugno (TDIt), in provincia di Bari, che impiega attualmente circa 1500 persone ed ha rappresentato per molti decenni un grande valore aggiunto per tutto il territorio essendo il secondo sito manifatturiero della Puglia dopo l’ex ILVA di Taranto. Lo stabilimento barese ha come core-product il common rail, ossia un componente meccanico che si utilizza nelle autovetture a motore endotermico e nello specifico in quelle alimentate a diesel.
Nel 2017, non molto tempo dopo gli accordi di Parigi e lo scandalo del Dieselgate, Bosch ha ufficializzato un esubero strutturale di 700 persone nel solo sito produttivo barese come conseguenza della scelta, non solo europea, di terminare l’utilizzo e quindi la produzione di autovetture a motore endotermico entro il 2035.
Lo stabilimento di Modugno avrebbe dovuto assumere un ruolo paradigmatico per quanto riguarda la relazione tra occupazione ed ambiente che il processo di transizione ecologica ha messo in atto. Ma così non è stato, anche a causa di una scarsa lungimiranza da parte delle parti sociali.
Persisteva, e continua a persistere, la necessità di una discussione sindacale e politica riguardo all’impatto che le transizioni ecologica e digitale hanno sulla sostenibilità sociale al fine di maturare, dentro un percorso collegiale, una riflessione sui modelli di produzione e consumo del capitalismo contemporaneo., Il dibattito, tuttavia, è rimasto bloccato su posizioni che tendono a lenire le ansie e le frustrazioni dei lavoratori e delle lavoratrici, i quali hanno dovuto subire licenziamenti e riduzioni salariali a causa dell’ampio utilizzo degli ammortizzatori sociali in un processo di ridimensionamento della fabbrica molto lento, ma inarrestabile.
I sindacati non solo sembrano fare molta fatica a rilanciare un percorso di rinnovamento radicale, ma alcune organizzazioni tendono a dipingere le imprese come vittime sacrificali di un “accanimento ambientalista ideologico”.
Questo atteggiamento divisivo ha portato nel caso della Bosch di Modugno ad un immobilismo sostanziale che nei fatti ha reso lo stabilimento una “zona di sacrificio”.
Eppure il sito barese, così come tutto il territorio, nel settore della meccanica e dell’automotive, aveva un know-how che lo ha reso negli anni uno stabilimento ad alta specializzazione produttiva.
Proprio il common rail – un prodotto innovativo e che ha rivoluzionato tutto il settore dell’automotive mondiale – è stato progettato a Bari e successivamente sviluppato e pre-industrializzato nello stabilimento Elasis-Fiat divenuto anch’esso di proprietà Bosch a fine anni ‘90.
Dal 2008, anno in cui lo stabilimento contava circa 2500 tra lavoratrici e lavoratori, è cominciato un lungo processo di deindustrializzazione che culmina oggi nei percorsi di outplacement e nei licenziamenti incentivati, ossia licenziamenti col criterio della non opposizione in cambio di una cospicua somma di denaro. Questi processi vengono introdotti in un territorio in cui coesistono disoccupazione, precarietà, alta incidenza di working poor e criminalità organizzata infiltrata sempre di più in attività di natura imprenditoriale.
Alla TDIt di Bari, nonostante il tentativo un po’ velleitario di diversificare la produzione, i lavoratori hanno sostanzialmente subito un modello di mono-produzione, che dopo tanti anni determina ancora una dipendenza produttiva dal core-product attuale legato ai motori diesel, destinati ad una inesorabile fine.
Seppur in maniera differente rispetto a Taranto, assistiamo alla parabola discendente dell’EX ILVA, ossia ad una necessità di riconfigurazione della produzione rispetto al quale sindacato e istituzioni assumono un atteggiamento miope e avallano una gestione poco incline ad una radicale riconversione. Quest’ultima porterebbe ad una crescita di competenze dei lavoratori e costringerebbe l’impresa a fare un upgrade tecnologico dello stabilimento, ad implementare un modello di produzione all’avanguardia e, magari, anche ad introdurre una riduzione di orario di lavoro a parità di salario al fine di ridurre l’esubero di personale. Ciò che invece si osserva è piuttosto un elemosinare da parte di tutti i soggetti sociali, quasi col cappello in mano, una riduzione di orario ottenuta col ricorso agli ammortizzatori sociali, quindi pagata dalla collettività.
Quella descritta è una tendenza generale e non certo solo di natura locale come dimostra il recente tentativo da parte dei partiti di centro-sinistra e del sindacato confederale di proporre una legge sul salario minimo legale con modalità che sono sembrate, agli occhi di scrive, piuttosto demagogiche alla luce sia della modesta cifra proposta (9 euro l’ora) ma anche della modalità corporativista di trovare un accordo fra le parti.
La consueta richiesta dei soli ammortizzatori sociali da parte dei sindacati consiste in un consolidato trasferimento governativo di fondi raccolti attraverso la fiscalità generale alle imprese senza che queste ultime siano chiamate ad una responsabilizzazione sociale.
In questo contesto pensare all’inserimento di un blocco dei licenziamenti – come sperimentato in fase Covid – non sarebbe peregrino, anzi doveroso e necessario.
Occorre tuttavia andare oltre la mera contingenza definita in questo caso dalla crisi del settore auto e pensare ad una convergenza sociale tale da coinvolgere i vari settori della classe operaia. In tal senso un’alleanza fra territori è necessaria, che guardi alle realtà ecologiste, ai sindacati radicali, alle associazioni, e sia finalizzata a discutere i processi di transizione in un modello sociale mutualista, partecipativo, conflittuale, ecologicamente e socialmente sostenibile.
Deve porre al centro gli interessi dei più deboli e dell’ambiente, sull’esempio della fabbrica sociale integrata introdotto e sperimentato dal Collettivo di Fabbrica ex GKN di Campi Bisenzio a Firenze. Deve esser in netta contrapposizione con le politiche industriali viste sino ad oggi che hanno come totem gli interessi delle grandi imprese e che quando è necessario, impongono alla classe lavoratrice di essere terrorizzata dai cambiamenti, dalle bonifiche, dall’ecologismo. Ci vogliono far vedere come nemici coloro che, appartenenti alla stessa classe sociale, sono stati costretti a migrare per maturare una possibilità di vita dignitosa altrove.
L’esperienza del Collettivo di Fabbrica Ex GKN sottolinea con forza l’esigenza di una riflessione innovativa, non impossibile, capace di far risvegliare dal torpore un sindacalismo conformato e conforme, le cui rivendicazioni assumono sovente i toni della testimonianza piuttosto che quelli del conflitto. A Bari siamo in un ritardo epocale ma “non è mai troppo tardi”.
Felisiano Bruni
Iscritto FIOM-CGIL
Pubblicato il 17 Dicembre 2024